La teoria delle impronte – contributo di Velasco Vitali 26 Gennaio 2021 – Posted in: ART

Ho imparato i fondamenti delle tecniche calcografiche durante i corsi estivi alla scuola d’incisione di Venezia. Quello dell’incisione è un universo di segni che si svela a poco a poco, una pratica artistica che poggia su regole precise che una volta applicate aprono a un imprevedibile e quasi alchemica avventura; Venezia, con quella sua struttura labirintica, è di per sé un intrico per la mente e una grande immersione per l’inconscio. La tecnica dell’incisione insomma non è teorizzabile, così come Venezia non può essere analizzata partendo da modelli urbanistici predefiniti… ma da una stratificazione architettonica venuta su in molti secoli, come un’azzardata continua sfida fra la ricerca di una stabilità concepita sulla mobilità dell’acqua.

Che cosa sia questa città lo chiarisce con un’acrobazia poetica Joseph Brodsky: “Il pizzo verticale delle facciate veneziane è il più bel disegno che il tempo-alias-acqua abbia lasciato sulla terraferma, in qualsiasi parte del globo. In più esiste una corrispondenza – se non un nesso esplicito – tra la natura rettangolare delle forme di quel pizzo – ossia gli edifici veneziani – e l’anarchia dell’acqua, che disdegna la nozione di forma. È come se lo spazio, consapevole – qui più che in qualsiasi altro luogo – della propria inferiorità rispetto al tempo, gli rispondesse con l’unica proprietà che il tempo non possiede: con la bellezza. Ed ecco perché l’acqua prende questa risposta, la torce, la ritorce, la percuote, la sbriciola, ma alla fine
la porta pressoché intatta verso il largo, nell’Adriatico”… e vale per gli intonaci delle facciate come per l’intero tessuto urbano.
È un incessante scorrere liquido che sembra alimentare anche lo stile degli artisti veneziani. Lo riconosco nei disegni di Emilio Vedova e nel mondo trasparente e piatto delle campiture di Giuseppe Santomaso, qualcosa che avrei voluto imparare nel guardare a quel tipo di maestri e frequentando quella città. Sarà invece il sensibile e geniale stampatore Corrado Albicocco, il primo a stringere amicizia con loro, oltre che con Giuseppe Zigania a curarne il lavoro grafico. La sua è “un’avventura” che può essere definita a tutti gli effetti brodskyana, un accostamento neppure troppo azzardato se lo si riferisce all’uomo e al lavoratore come unità inscindibili. Il carattere coriaceo e determinato di Corrado, amico e spalla di grandi artisti, ex stopper dell’Udinese, custode della propria famiglia e del proprio “artigianato”, giustifica questa peculiarità. A partire da quegli anni, intorno al 1980, Albicocco è stato un prezioso braccio destro di artisti-incisori molto noti e di grande maestria, un asse portante, insieme a pochi altri in Italia, della stampa calcografica di raffinata e superba qualità.

La storia e il racconto della stampa d’arte che si espongono in questa mostra, divisa in due sezioni, partono dunque da lui e dalla sua biografia, ma le strade potrebbero snodarsi nella contemporaneità o ritornare a Venezia, poiché lo scopo di quest’esposizione bellanese è raccontare come l’incisione abbia saputo resistere e trasformarsi nel tempo preservando un marginale ma autonomo e distintivo linguaggio. È un viaggio che potrebbe avere inizio proprio seguendo le tracce lasciate da Jacopo de’ Barbari, che proprio a Venezia alla fine del ‘400 incide, segno dopo segno, l’intera mappa della città lagunare (forse con l’aiuto di Albrecht Dürer). Un intaglio in legno di pero che è ancora lì, visibile al Museo Correr, come un bassorilievo intoccabile, un pizzo eloquente, un labirinto di calli e canali che vuole rappresentare, con immaginifica chiarezza, cosa sia una città e allo stesso tempo l’incisione, e di quale natura sia fatta: un andirivieni di segni, di impronte, di intrichi e architetture piranesiane, un solco, tracciato a secco o acidato, che nella descrizione va ben oltre ciò che le parole possono dire. Strati d’inchiostro, pressati, sotto il pesante rullo di una calandra d’acciaio o di una pressa piana che stira la carta fino ad estenuarne la fibra. Questa è l’incisione: la maggior fonte di conoscenza visiva per un uomo di cultura del ‘500 e il miglior mezzo di diffusione di immagini che la società di quel tempo gli possa offrire.

Una tecnica che è passata fra le mani di Martin Schongauer, Andrea Mantegna, Antonio Pollaiolo e Albrecht Dürer fino a esplodere nel diciottesimo secolo, fra quelle di un altro, allora misconosciuto veneziano, Giovanni Battista Piranesi, che in modo del tutto personale e imprevisto saprà far emergere il segno inciso dagli anfratti bui de Le Carceri, restituendo significato a quel mondo di archeologia sommersa che era stato, per tutta la vita, il centro della sua ricerca. Illustrando Vasi, Candelabri, Cippi, Sarcophagi, Tripodi, Lucerne ed Ornamenti antichi, Piranesi si farà “mediatore” e narratore dell’antichità, ma in seguito, dopo aver interpretato le Antichità Romane, secondo una propria personalissima maniera, approderà alle audacissime e demoniache visioni delle Carceri, aprendo così la strada a una visionarietà libera e più audace, la stessa indicata un secolo prima da Rembrandt che aveva di fatto trasformato l’incisione in un mezzo espressivo moderno, più diretto, nell’ago sismografico di riflessioni intime, spesso aspre, realisticamente credibili.

Per comprendere questo nuovo approccio, basterà gettare lo sguardo sulle crude parabole dei mendicanti, incise dal maestro olandese con pochi tratti di nero, o sfogliare l’ormai notissimo album de “Los Caprichos” di Goya o le crude lastre de “Los desastres de la guerra”. È la grande svolta per una tecnica nata da esigenze divulgative che nel corso del tempo si rivelerà invece come il linguaggio più idoneo per dare forza all’immaginazione… “Guardiamole queste Carceri, che sono, con le Pitture nere di Goya, una delle opere più segrete che ci abbia lasciato in eredità un uomo del XVIII secolo. Innanzitutto, si tratta di un sogno. Nessun esperto di materia onirica esiterà un attimo in presenza di queste pagine distintamente pervase da un’atmosfera di sogno: la negazione del tempo, lo sfalsamento dello spazio, la levitazione suggerita, l’ebbrezza dell’impossibile raggiunto o superato, un terrore più vicino all’estasi di quanto non pensino quelli che, dal di fuori, analizzano i prodotti del visionario l’assenza di legame o di contatto visibile tra le parti o i personaggi del sogno, e infine la fatale e inevitabile bellezza” (Marguerite Yourcenar, Con beneficio d’inventario, Bompiani 1985). È per andare incontro a questa segreta bellezza, disseminata fra i fogli di Rembrandt, Goya, Ensor, Boccioni, Bartolini, Morandi e “Vitali”, gentilmente prestati dalla Raccolta delle Stampe “Achille Bertarelli” di Milano, che si è tentato di gettare un ponte, iniziando proprio dagli inchiostri ancora freschi della Stamperia D’Arte Albicocco, tra i significati che hanno attraversato quasi quattrocento anni di storia di questa imperscrutabile tecnica. Una rassegna puntellata di pochi e densissimi esempi, di cui sarebbe stato sufficiente apprezzarne soltanto due per fissare un ipotetico, nuovo dialogo fra tecniche, teorie e stili: il ritratto col cappello da orientale della madre di Rembrandt e quello più asciutto, vellutato e ironicamente decò, della madre di Boccioni.

Un confronto che invita a licenziare il compito su questa carrellata di nomi e epoche diverse, una passeggiata fra le immagini in bianco e nero in un campo troppo vasto e rischioso, un viaggio affascinante come quello di un sogno che lascia strascichi ed effetti inaspettati dopo il risveglio. Un esercizio di conoscenza apparentemente banale e per certi versi analogo a quello descritto, senza mezze misure, proprio da Umberto Boccioni dopo un’esperienza visiva che lui stesso aveva considerato irripetibile: “ho passato due notti agitatissime piene di smanie di sogni. Non posso negare che questo è l’effetto dei due libri con illustrazioni di Aubrey Beardsley che ho nelle mani da due giorni”.

La storia dell’incisione che dal Quattrocento arriva alla contemporaneità è una lunga mescolanza di segni che assomma caratteri e stili diversi, è un’infinita sequenza d’impronte digitali, lasciate involontariamente sulle lastre, impresse nelle cere o nei manici dei bulini, come fossero informazioni codificate che consentono di distinguere la mano di due artisti diversi. Il segno non è altro che un frammento di codice genetico che fissa una struttura con una precisa sequenza.
È quello che porta a riconoscere un’immagine su un foglio calcografico secondo indicazioni che sono scientifiche ma, in parte, anche sensoriali. Qualcosa di analogo a un’indagine grafologica, riferibile a quella regola secondo cui è dimostrabile che una certa tipologia di linee e di disegno appartengono, per esempio, solo e certamente alla mano di Giorgio Morandi. Così come si pensava che avvenisse nel pensiero medievale, secondo cui “tutto nel Creato reca un’impronta, una ‘firma’ incisa da Dio che ne è l’autore”.
Senza addentrarci troppo però nell’ambito del pensiero ermetico e cercando di mantenere intatta la visione della natura alchemica dell’arte dell’incisione, potremmo invece provare ad applicare a questa “storia” un nuovo metodo di conoscenza, che ci piace definire La teoria delle impronte.

Velasco Vitali
La teoria delle impronte