Cooks something new 18 Dicembre 2019 – Posted in: ART

Kenny era un ragazzo deciso e con una spiccata attitudine all’arte. Alla fine degli anni Trenta, giovanissimo, aveva deciso di trasferirsi a New York per frequentare la Parsons, la scuola giusta per quelli che volevano sviluppare il proprio talento artistico, la stessa dove era passato Norman Rockwell e, dopo di lui, tanti altri artisti, illustratori e stilisti; un’accademia fondata alla fine dell’Ottocento da William Merritt Chase, uno dei più apprezzati e talentuosi impressionisti americani (in un celeberrimo ritratto esposto al Metropolitan, John Singer Sargent lo ritrae in piedi, l’espressione sicura e autorevole, un’eleganza esclusiva, la tavolozza in mano). Chase è un uomo attrattivo e influente a New York. Per i giovani è un modello e un riferimento, è colui che ha saputo far interagire l’arte con altre discipline con cui è imparentata, dalla moda alla pubblicità, dal design all’illustrazione, alla fotografia.
Chase era scomparso da molti anni quando Kenny si recò alla sua scuola. La figura carismatica e poliedrica del maestro di Indianapolis (Nineveh per la precisione, attuale Williamsburg) aveva influenzato l’anima culturale del Paese, lasciando segni indelebili sulle future generazioni di artisti americani. Fu in questo clima che per Kenny fu facile decidere a quale scuola iscriversi. Sono anni difficili, la crisi del ‘29 è ormai alle spalle, ma il mondo si avvia verso il secondo conflitto mondiale, l’arte si ritroverà a scandagliare in un territorio di crisi e Kenny, terminati gli studi e incoraggiato da alcuni artisti più anziani di lui, fra cui Moses Soyer o Stanley William Hayter, prende a dipingere con impetuosa continuità e nel 1944 apre un suo studio dalle parti del ponte di Brooklyn. La vita gli scorre via inquieta e ricca di sorprese. Dopo un anno e mezzo parte per il Guatemala e in quello stesso mese Peggy Guggenheim, che gli era stata presentata proprio da Hayter, aveva inserito alcuni suoi dipinti in una mostra dedicata dall’Art of This Century Gallery, alla giovane pittura americana (si svolse dal 3 al 21 dicembre 1946, gli artisti presenti con Kenneth Scott  erano Charles Selinger, Dwight Ripley, John Goodwin e David Hill).
Di quelle esperienze espositive, che comprendevano anche pittori più maturi, Peggy conserverà vividi ricordi, ricchi di aneddoti: “Avevo la cantina piena anche di tutti i quadri comprati durante le mostre di Art of This Century, come quelli di Baziotes, Motherwell, Still, Virginia Admiral, Pousette-Dart, Laurence Vail, Pegeen, Kenneth Scott, Janet Sobel, Rothko, Hirsfield e Gorky. Nel 1953, Walter Shaw e Jean Guerin, due miei vecchi amici che vivevano a Bordighera, mi chiesero in prestito dei quadri perché volevano organizzare una esposizione di pittori americani, che sarebbe stata patrocinata dal Comune, e perciò piuttosto ufficiale. Cocteau scrisse l’introduzione al catalogo ed io accettai di prestare i quadri e andai a Bordighera con Laurence Vail ed un mio amico di nome Raoul”.
Ma proprio nell’anno in cui il nome di Kenneth Scott sarà inserito a pieno titolo tra coloro i quali erano destinati a divenire gli indiscussi protagonisti dell’arte del Ventesimo secolo, l’artista vivrà un momento di grande difficoltà economica e sarà costretto a lasciare il suo studio newyorchese e ad abbandonare la pittura. Sconsolato ma non vinto.

Nell’arte vige una sola regola: dedizione totale. Gli artisti suoi compagni di strada, anche se di lui poco più anziani, come Gorky, Pollock, Still o Rothko non ne avevano voluto sapere di cambiare rotta di fronte alla miseria. Nessuno di loro avrebbe mai accettato di fare un passo indietro per mettersi al servizio di qualcosa di diverso. Soprattutto la “vocazione” dell’arte non prevedeva e non prevede compromessi. La scelta di Kenny fu invece senza rimpianti – one day I started  designing fabrics; that was the end of my painting carreer – (un giorno cominciai a disegnare tessuti, quella fu la fine della mia carriera di pittore) drastica, repentina e inappellabile, una decisione presa senza guardare più indietro, anche quando divenne famosissimo, tranne che per incontrare ancora qualche amico artista, come Sebastián Matta o per andare a trovare l’amatissima  Peggy, a Venezia, a Ca’ Venier dei Leoni. Ma il talento è come l’acqua, non si ferma e da qualche parte sgorga, proprio come il successo dei suoi fabrics che si estenderà negli anni, accompagnandosi a una costante capacità d’indagare la storia dell’arte, una ricerca che non si esaurirà mai.
Dalla fine degli anni Cinquanta Ken Scott si farà conoscere al mondo come disegnatore di tessuti. Questo apprendistato sarà la struttura portante e costante della sua capacità di innovare e la grammatica delle forme a cui riferire la sua inesauribile capacità d’invenzione. Ogni nuova idea sarà sospinta da una dimensione di gioia, d’ironia e leggerezza, da una possibilità cromatica infinita e ogni volta esatta, come se un codice compositivo acquisito venisse ogni volta riplasmato per assumere una forma diversa dalla precedente.
Senza essere schiavo o vittima del sistema della moda, Ken Scott fu il vero artefice colorista, con Walter Albini, Mariuccia Mandelli e Missoni, della reinvenzione di quel mondo che stava aprendosi a un’era nuova, operando una rivoluzione del gusto e della percezione, oltre che delle sue relazioni in ambito sociale ed economico. Una trasformazione radicale, pari solo a quella operata un secolo prima da Charles Frederick Worth.
Invenzioni che hanno le stimmate del primato: Ken Scott cooks something new è il titolo della sfilata del Piper nel gennaio del 1970, dove gli “abiti” della sua collezione primavera-estate, ispirati alla Findus, plasmano i corpi delle modelle secondo le sagome dei rigatoni, degli asparagi, dei baccelli di pisello, del gruviera e delle cosce di pollo. E in seguito, sotto la tenda di un circo, le modelle sfileranno in abiti da zebra, da leopardo o da giraffa. Sono anni incandescenti e oltre essere riconosciuto come l’inventore delle sfilate-spettacolo, Ken Scott, nel 1969, aprirà a Milano, in via Corridoni, il primo ristorante griffato. Per Eats&Drinks, questa era l’insegna, disegnerà tutto, dagli interni alle forchette, dai bicchieri agli sgabelli, dai piatti alle lampade mettendosi di tanto in tanto ai fornelli per amici e avventori. Capace di anticipare inconsapevolmente l’esplosione del food mood dei decenni successivi.

La mostra di Bellano inizia da qui, dal momento in cui la riproposizione del cibo è un valore estetico e un disegno chiaro ed evidente. È anche il punto in cui può cominciare un lavoro di ricerca a ritroso dove qualcosa s’è perso, offuscato dalle nebbie della dimenticanza. L’opera di Ken Scott è assente dai guinness dei riconoscimenti, la sua firma spesso ancora giace incontaminata nei depositi di chi preserva questo senso di perdita. È vero, tutti ricordano Ken Scott, ma di lui sopravvive un resoconto distorto, un artista-stilista dal nome sciupato, passato di mano come una sciarpa su una bancarella del mercato, buona per massaie non molto cool che adornano le loro cucine con strofinacci stampati.
Troppo generoso per competere col tritacarne della storia: il racconto di Ken è quello di chi ha saputo guadagnarsi la libertà d’inventare, scrollandosi di dosso il peso di una responsabilità che l’avrebbe forse imbrigliato. Anche quella di Rothko è la storia fin troppo nota di un artista al quale sono commissionati dei dipinti per la sala di un ristorante, ma lui non ci sta, rinuncia senza mai concedere di appendere alle pareti del Four Seasons le sue serie nere, pur sapendo che in quello spazio sono già presenti opere di Picasso, Rosenquist e il Blue poles di Pollock; pur sapendo che il progettista di quella sala è Philip Johnson e il palazzo di Mies van der Rohe. Sono quadri che per un decennio troveranno posto solo in uno scantinato e poi sarà lui stesso, nel 1969, un anno prima di togliersi la vita, a donarli alla Tate di Londra. È l’anno in cui Ken Scott apre in via Corridoni a Milano il suo Eats&Drinks. Ma quest’analogia si nutre con troppa semplicità di contrasti ed è così irriverente da sembrare cinica, al punto che non sarebbe consentito immaginare una donna vestita con una gonna firmata Rothko, tutta sfumata di “profondo rosso” (o nero). Eppure la straordinaria grandezza di Ken Scott sta nell’aver abbandonato e di essere ripartito da altro e dal basso, ponendosi agli antipodi delle sue stesse premesse, attingendo alla cultura pop con la consapevolezza di chi aveva già attraversato le sale dei musei, capace di citare tanto Vincenzo Campi quanto Sonia Delaunay. Libero dall’essere artista, si ritrova a non avere limitazioni nell’ambito dell’arte applicata, dalla moda al design e persino al cibo. In filo diretto con la storia sa attingere alla psichedelia e all’arte riuscendo a riproporre nelle sue  decorazioni un “ricettario della pittura” in perfetta sintonia con la sua contemporaneità, azzardando gli abbinamenti più audaci.
Questa mostra si apre con una zoomata sulle verdure esposte al mercato, richiamo diretto a La verduraia di Vincenzo Campi del 1580 della Pinacoteca di Brera e chiude con una ciliegia su fondo blu, forse un ovvio rimando alla banana di Warhol per la copertina dei Velvet Underground & Nico del 1967. Intorno e nel mezzo, capolavori d’ironia culinaria, dove l’arte fiamminga dialoga con le partiture più astratte di Paul Klee in stretta relazione col design allucinato dei puff cromati o dei tavoli fioriti del suo ristorante, quasi fossero frammenti estrapolati di un Kandinskij floreale e geometrico su unica tela, Kennynsky come gli piaceva firmare per gli amici più stretti.
Per focalizzare la grandezza e la qualità dell’opera sarebbe sufficiente riscrivere le tappe che hanno costituito il suo percorso, riallineando date e immagini come per una cronologia sportiva e poi sovrapporlo a quella dei diretti “concorrenti”. Ma Kenny per vocazione era abituato a correre da solo, senza guardare gli avversari. I suoi record non erano altro che il risultato di un “saper fare” (così scontato per chi lo fa). A noi, del resto, basta poterlo riproporre con il sottile orgoglio di aver sfilato da un cassetto chiuso da più di trent’anni quindici pizze a gouache dal sapore assolutamente inedito e sorprendente e di poterle ora mostrare al pubblico con la stessa sorpresa di chi le ha viste per la prima volta. Dipinte con quale scopo? Il tempo si porta via anche questi segreti, ma non il gusto di immaginare che anche questa serie fu un segno di assoluta libertà, fino a concederci d’immaginare che non gli sarebbe dispiaciuto riaprire per qualche mese con noi il suo ristorante in un luogo imprevedibile come Bellano e aggiungere all’insegna tradizionale del locale un richiamo in più, quel and pizza, che nei ristoranti come si deve non si fa, nella speranza di “acchiappare” qualche cliente in più! Ma queste pizze, collocate lontano dal ristorante, si giocano in egual misura tanto la possibilità di rientrare nel cassetto, quanto quella di entrare al museo. 

Lasciare invece a noi visitatori, alla fine di questa riproposizione bellanese, l’interrogativo di decidere quale sia stato il suo reale punto di vista, se dalle passarelle della moda e dalle vetrine di via Montenapoleone oppure dalla strada e dalle bancarelle dei mercati rionali, è compito facile, demandando invece al curatore dell’esposizione il compito di coniugare Bellano con New York per fornici una risposta altrettanto vera a quella voragine d’incomprensione che l’ha reso orfano delle attenzioni che oggi meriterebbe. 

Ma a queste preoccupazioni Kenny risponderebbe con un’alzata di spalle come quel giorno a Venezia quando Peggy Guggheim, subito a pranzo, domandò a Tennessee Williams quali fossero i segreti per raggiungere il successo senza rischiare fallimenti. La risposta dello scrittore passò alla storia, chiara e inequivocabile: “Success and failure are equally disastrous”. 

Velasco Vitali
curatore della mostra George Kenneth Scott . Eats&Drinks&Pizza