Il custode inesistente 19 Agosto 2014 – Posted in: ART, BOOKS
Il contributo di Leonardo Castellucci a Il Custode
La scrittura di Andrea Vitali, che ogni volta si avviva con bella forma e rinnovata capacità d’invenzione sulle trame delle tante storie che ruotano attorno al piccolo micro/macrocosmo di Bellano, questa volta non ha trovato il consueto materiale narrabile e allora s’è smarrita, come assopendosi in un sogno o forse s’è abbandonata a una visione o è stata costretta a dare voce al suo daimon, che per farla uscire dalla sua pur alta consuetudine l’ha costretta a lanciarsi in una sfida. Con tali premesse il risultato non poteva essere che una nuova cifra espressiva che avrà colto di sorpresa anche lo stesso autore. Perché il narrare forbito di Vitali, costruito secondo regole grammaticali impeccabili, qui si fa crudo, simbolico, intermittente, sincopato, imprevedibile: ora drammaturgico, ora quasi epigrammatico, ora chiuso ed ermetico come un’intuizione filosofica. Un narrato dettato dall’inconscio, che non si pone il fine di raccontare ma piuttosto di svelarci un segreto.
Il nostro tragico segreto.
Metafora nichilista sulla condizione umana questa confessione/rivelazione che il custode ci trasmette come un dono di morte, attraverso questo diario che pare scritto da un condannato all’ergastolo e che ci conduce in un luogo atemporale dove niente si riesce a immaginare se non un’atmosfera vaga e morta, sospesa in una dimensione sconfortata e indefinita che richiama quel breve e criptico capolavoro ch’è Dall’Inferno di Manganelli, soliloquio di un’anima persa che galleggia fra vita e morte nel proprio aldilà senza divinità e che, nel suo sotteso significato, sembra parente di certi splendidi e agghiaccianti racconti buzzatiani. Una dimensione allucinata questa in cui il custode, a differenza degli altri esseri umani, porta in sé l’atroce consapevolezza di essere dentro un matrix e di vivere un’esistenza schiavizzante e senza significato, dove la libertà è una chimera e i sentimenti, quelli veri e puri, sono presto soffocati da una totale spersonalizzazione. Per questo il custode apparentemente racconta con oggettiva, frigida e indifferente malinconia il suo ruolo in questa delirante realtà. Ruolo e identità che alla fine restano un interrogativo. Custode da generazione in generazione di maschere che sono state indossate dagli uomini nel momento della loro nascita e smesse al momento della loro morte. Custode di mille falsità, di mentite spoglie, di proiezioni e non di verità, di maschere che gli uomini si mettono per sfuggire a se stessi e dunque ‘custode del nulla’, di ciò che non esiste, di ciò ch’è falso, di ciò che non può lasciare che una memoria inventata.
E in questo clima, che sa di vuoto e d’oblio, le maschere di Giancarlo Vitali corrono dietro al disperato e rassegnato diario con altrettanta carica simbolica. Dove sta la nostra identità, dove la nostra libertà di essere se stessi, sembra chiedersi l’artista quando dipinge, incide, disegna le sue maschere, che sono una continua mutazione di volti umani che si alterano, si deformano, virando ora verso uno ‘splendido orrore’, ora verso una ‘magnifica mostruosità’, in un gioco di specchi deformanti e di finzioni che lasciano la verità (se ce n’è una) in un assoluto spaesamento? Sono i nostri mille volti, quelli che indossiamo senza averne coscienza ma che ci rendono continuamente altro da ciò che crediamo di essere o da ciò che potremmo finalmente essere se solo riuscissimo a non cedere alla paura. Un solo personaggio sembra non obbligato a essere una maschera, il custode, appunto. Una bellissima acquaforte che ritrae un uomo dall’aspetto bonario attorniato da una pletora di maschere che appaiono personaggi di un ‘burattinaio’, raccolti in un cimitero senza anime.