Giancarlo Vitali. Le stagioni della vita 31 Maggio 2013 – Posted in: ART

SaraSignoraMorteCorporale.GiancarloVitaliDomenico Montalto scrisse questo testo per la mostra Le Stagioni della Vita (Assisi, 1999).
Oggi lo pubblichiamo integralmente in occasione della mostra Riflessi della Fede nell’Arte Contemporanea.

Il cielo scende ad avvolgere come un sudario il corpo del Poverello. Francesco non sale al cielo, è il cielo che si ripiega su di lui. Ma è un cielo di tenebra e cenere, che ha il medesimo metallico colore della pietra nuda del Subasio sulla quale mani pietose hanno adagiato il santo; un santo larvale e plebeo, terreo e livido come un ecce homo, ossuto come si conviene a chi s’è esercitato nell’imitatio Christi; un santo disseccato in guisa d’acciuga o meglio d’uno di quei magri pesci di lago così consueti alla pittura di Giancarlo Vitali. Francesco, uomo dei dolori, stremato e consumato fra penitenze e rapimenti celesti, a guardarlo qui nei dipinti del maestro bellanese è proprio come lo descrisse nel 1224 Tommaso da Celano: “…Mani scarne, dita lunghe, unghie sporgenti, piedi piccoli, pelle delicata. Scarno, ruvidamente vestito” . San Francesco muore, a metà imbozzolato in un bianco panneggio che è la summa di tutti i bianchi possibili in pittura. La morte, ogni morte, sembra dirci Vitali, reca con sé un piccolo privato Golgota, una dotazione personale di sgomento, notte e buio in cui l’evidenza stessa della realtà – quella realtà che Francesco amò come dono in ogni suo aspetto – scolara, e le cose più care perdono peso, forma e luce, tornando alla loro vera dimensione di epifanìe e di illusioni. Il transito al Paradiso, se Paradiso sarà, avviene solennemente per una zona di non colore, quasi il non colore del Lario d’autunno, come un viatico di cecità e d’oscuramento, in un exit ben poco glorioso e decoroso, insomma più un magone che un’estasi. Quando un uomo chiude gli occhi, ogni cosa che se ne va con lui ha un suo Venerdì Santo, un istante struggente e straziante – chissà quanto lungo, o magari brevissimo – di oblìo e d’appannamento, prima che l’interessato possa finalmente tornare a vedere tutto sub specie aeternitatis, con la saggezza postuma che s’addice agli estinti.

Laudato sieTutto questo vuole rammentarci, anzi spiattellarci davanti senza mezze parole, il cielo purgatoriale che Vitali ha dipinto per questa mostra con vis pittorica rarissima e mirabile, guardando alle cose ultime dalla sua finestra di Bellano. Cielo tumultuoso e intrepido, quasi d’un Greco redivivo. Ma un Greco quaresimale e cinereo, senza la luce pasquale dei suoi mistici fondali, un Greco adatto all’epoca, al nostro tempo dandy e bestiale, sazio a crepapelle, così stoltamente inumano e vuoto. Un cielo foriero di vento e pioggia, quello di Vitali, attraversato da qualche barbaglio che non sai se di quiete o tuono. Una “nuvolona nera”, come dice quell’antica canzone alpina, che circonda anche santa Chiara; una santa Chiara dagli occhi scuri e ardenti che fanno innamorare, bella come una Madonna d’altri tempi; una santa per la quale il cielo si fa aureola e addirittura mantello. Una santa ammantata di cielo, anzi fatta di cielo, benché bigio: che gran quadro, vecchio Vitali. Metafora più perfetta non poteva inventare per raccontarci – col magistrale mestiere che gli conosciamo, con una freschezza poetica che pare immune agli animi e all’età, coll’inimitabile ductus sciabolato e sinuoso della sua pennellata di prima intenzione, umorosa e umorale – la virtù francescana dell’ilarità. Un’ilarità in punto mortis, che fonde cielo e baratro. Vitali – pur con “fatica, fifa, sconcerto” – ci rammenta che tutto ci è dato, e dato in prestito. Vita a credito, non morte a credito come riteneva il perduto Céline. E davvero, Vitali ce la rammenta con la somma semplicità di Francesco, con cuore vero e amico delle cose umili, quotidiane e di sempre, alzando un cantico da cavalletto che per lui ha la durata della vita, un instancabile inno a “sorella pittura”, per restare all’immagine francescana, che sfida e giudica l’oleografia di tanta sedicente “arte sacra” contemporanea, di tanti santi e santini dall’aria ebete, freschi di coiffeur e di sartoria, di tanti angioletti new age dall’aria politicamente corretta che allietano chiese, mostre e biennali varie, di troppi simboli che sono aria fritta, attinti al self-service del nuovo “sacro” planetario. Dalla prima ora, il “cantico” di Vitali – eremita nel suo osservatorio lacustre e ventoso sul mondo – percorre le stagioni del vivere, del nostro appartenere a quel quotidiano miracolo che chiamiamo vita. Una personalissima “laude” alle cose “pretiose et belle”, come scrisse il santo in quel Cantico delle creature che è insieme capolavoro e testamento. E lo fa con i suoi soggetti “bassi” nonché consueti. Gli uccellini in livrea, sussiegosi come oscuri attori d’avanspettacolo davanti al fotografo. Un lupo affranto, che ulula alla luna la disperazione della sua fame atavica, un lupo di Gubbio così poco feroce, anche perché veramente feroce, a sentir Vitali, “sono solo gli uomini”. I girasoli, sontuosi cascami vegetali spremuti d’ogni linfa e olio. Melograni ammaccati e uva sparuta nel catino. Fiori già declinanti, pensieri d’una bellezza che è nostalgia dell’eterno, ma sulla quale cade l’ombra. I vecchi di Bellano, singolarissima galleria o sagra di personaggi da feuilleton strapaesano spellati e scuoiati come polli o conigli, o come inconsapevoli controfigure di san Bartolomeo, dall’occhio implacabile e solidale del pittore. Le albe e i tramonti accesi di rosso, paesaggi magari ricavati da lacerti di vecchie carte, come al solito amorosamente recuperate. Il tutto nell’alitare e crepitare glorioso della pittura, che eleva le figure e le nature morte di Vitali, più terragne che spirituali, al rango di fioretti, di casti pensieri sul nostro inesorabile migrare alla tomba ma anche alla gloria. Alla realtà più ordinaria e persin dimessa, anche quella che ha l’afrore delle stalle o lo sguardo stralunato d’una capra, Vitali consegna la corona e la palma della pittura, di una sacra rappresentazione dove uomini e animali recitano con pari dignità creaturale. Una grande pittura inconfondibilmente alla Vitali, eppur inedita, fattasi grigia e penitenziale, seconda pelle d’una realtà ora bella e dolorosa, ora leggera e indecifrabile, ora faticosa e ilare. Una povera realtà che, a settant’anni, Vitali guarda ancora con gli occhi di un innamorato: forse perché essa, in ogni immagine, cova l’immagine del Volto santo, l’immagine che non muore, come Francesco ci ha testimoniato.

Domenico Montalto