La testimonianza di Stefania Battistini | Notizie dalla prima linea 20 Febbraio 2023 – Posted in: BOOKS, TRAVEL

«Il 10 febbraio del 2022 Di Maio ha chiesto agli italiani di rientrare da Kiev. Il 13 sera noi – la mia troupe è formato da Simone Traino e Mauro Folio – siamo arrivati nella capitale completamente allo scoperto: la guerra non era ancora scoppiata e non sapevamo cosa ci aspettava. Kiev sembrava, piuttosto che una vittima sacrificale, una città normale. Bar e negozi aperti. Ristoranti in attività. Cosa facciamo qui, ci siamo chiesti? Abbiamo preso un fixer, si chiamano così gli accompagnatori in zona di guerra, e siamo partiti verso il Donbass. Siamo finiti a Avdiivka, un centro abitato che si trova di fronte a Donetsk, dove stavano già le milizie filo russe. Qui abbiamo trovato la guerra combattuta. La gente ci guardava stranita e ci diceva: ve ne accorgete adesso che in Ucraina si muore? Sono otto anni che si muore. Qui le esplosioni erano vere, la terra tremava. Qui abbiamo sentito per la prima volta un’espressione verbale che non ci avrebbe abbandonato mai più per tutto il tempo dell’invasione: c’est normal. È normale. Sparano i cannoni, fioccano i proiettili, sibilano i missili e gli ucraini dicono c’est normal. È normale. A nord, a sud, a est. In tutto il paese. C’est normal. Abbiamo imparato che niente spaventa gli ucraini. Lo abbiamo imparato una volta per tutte. E abbiamo imparato a non spaventarci noi.
Il 23 febbraio, io, Mauro e Simone stavamo guardando la televisione italiana, come si fa in tante famiglie. Avevamo davanti Vespa che, a migliaia di chilometri di distanza, conduceva “Porta a porta”. In studio tirava una brutta aria. Anche fuori, tra i c’est normal, c’est normal, cresceva l’agitazione. Alle 5 di notte, hanno cominciato a urlarci scappate, scappate. Era iniziata l’operazione speciale, l’invasione. Abbiamo preso l’auto e siamo fuggiti per davvero, prima che da Donetsk arrivassero i russi. L’appuntamento con l’armata era rinviato. Con la nostra auto sgangherata ci siamo diretti su Sloviansk. In città abbiamo incontrato il caos: file ai supermercati per il cibo, file ai bancomat per prelevare, file per l’acqua. Non avevamo niente. Nulla da spendere, nulla da mangiare. Abbiamo trovato due stanze in un alberghetto. Dappertutto transitavano missili e armi. Eravamo nel mezzo dell’inverno ucraino. Faceva freddo. Si gelava. Era di nuovo la guerra vera. Alle prime luci del giorno, abbiamo visto il popolo “c’est normal c’est normal” mostrare il suo vero volto: in ogni angolo di campagna c’erano civili che non avevano mai sparato un colpo, che si esercitavano coi Kalashnikov. Un ra-ta-ta-ta continuo. Un segnale molto brutto per i russi. Qui c’era gente decisa a difendere la propria casa e i propri cari. C’est normal, è normale. In Ucraina.
Poi ci siamo spostati a Dnipro. Dnipro è una città non grandissima, ma importante. La base della comunità ebraica Ucraina. Secondo noi un obiettivo che i russi non avrebbero osato puntare. Pensavamo ad un posto sicuro. Mica tanto. Abbiamo visto un centro abitato ordinario diventare in poche ore una trincea. La gente si muoveva per le strade di Dnipro come piccoli insetti nei formicai. Tutti attivi, tutti facevano qualcosa per preparare le difese. In piazza si erano riunite famiglie intere, nonni, genitori e bambini. Erano lì a costruire bombe molotov. Una bambina, mentre versava benzina nella bottiglia, mi ha detto: quando arrivano i carri russi gliele lanciamo dalla finestra. Poi, ha aggiunto: questo pomeriggio ci ritroviamo per leggere poesie sulla pace. C’est normal. C’est normal.
Dormivamo in un casermone brezneviano. A Dnipro. Una mattina mi sono svegliata in un incubo. Ero sul balcone. Stavo preparando il collegamento in diretta con “Uno Mattina”. Battevano sulla porta. L’hanno abbattuta. È entrato un gigante in divisa, ha buttato a terra Mauro e gli ha piantato un ginocchio sulla schiena, come i poliziotti americani con George Floyd. Nella stanza si è materializzata la violenza pura. Una tempesta di paura. Anche Simone è finito a terra. Un inferno. Mi hanno fatto mettere in ginocchio. Piangevo. Pensavo fossero russi. Pensavo di tutto. Piangevo. Intanto la scena finiva in diretta a “Uno mattina”. Senz’audio. Pochi in Italia hanno capito cosa succedeva».

«Noi eravamo terrorizzati. Nell’aria si respirava violenza. Mi pareva di essere in mezzo a un blitz antiterrorismo delle teste di cuoio. Il ginocchio degli uomini in divisa continuava a pesare sulla schiena dei colleghi. Ci hanno portato via i telefonini. Pian piano abbiamo capito che gli incursori non erano russi ma ucraini. Lentamente la tensione è scesa. Il nostro fixer non c’era. È intervenuta l’interprete e le cose hanno cominciato ad andare a posto. Non ho mai capito perché ci hanno trattato come terroristi. Ci hanno restituito i telefonini e ci hanno guardato come per dire: c’est normal. Qualcuno ha tentato di montare un caso attorno a questo blitz, ma mi sono sottratta. Non ho dato interviste. Non ho fatto denunce. Niente. C’est normal, c’est normal, mi ha insegnato a reagire in un certo modo. In automatico mi è passata per la testa un’espressione un po’ pomposa: paranoia esistenziale. Il commando dei servizi di sicurezza è stato preso da una paranoia esistenziale. Eravamo in guerra. In una città sotto attacco di missili e bombe. Quel che è accaduto potrebbe essere considerato normale davvero. Abbiamo continuato a lavorare. Chissà cosa hanno pensato in Italia i miei vedendomi sfilare con le braccia alzate dietro gli ospiti in studio e la conduttrice. Per fortuna senz’audio. Fuori, il formicaio Dnipro continuava a preparare le difese in attesa dei russi.
Da Dnipro abbiamo puntato sulla centrale atomica di Zaporizhzhia. Si sentiva che stava succedendo qualcosa di terribile da quelle parti. Eravamo in una chiesa, col prete locale. I russi cercavano di conquistare la centrale. Gli ucraini, i civili, non i soldati, si sono messi davanti all’ingresso del sito, quelli dell’armata gli sparavano addosso come se fossero stati i bersagli di un poligono. Senza pietà. Senza sosta. Un missile russo è caduto dentro la centrale. Poteva essere una tragedia globale, la nuova Chernobyl: è andata bene, l’ordigno ha colpito un edificio secondario. In 24 ore, gli invasori hanno preso possesso della centrale nucleare e avvisato l’AIEA della conquista. Da quel momento il mondo avrebbe dovuto vivere nel terrore. Se cedono i reattori di quella centrale è un dramma.
Il 10 marzo è iniziata la grande fuga degli abitanti di Dnipro. Un esodo biblico verso il più vicino valico che porta in Romania: Porubne. Un dramma. Vecchi, bambini, donne, tutti in marcia verso la salvezza dall’invasore. In marcia, ma fermi. Gli ucraini fuggivano con le loro povere cose. La vita chiusa dentro valigie scalcinate. Borse della spesa. Mi ha colpito una ragazza che avrà avuto diciott’anni. Era bellissima. Si portava con sé la mamma e il cagnolino. Altri si portavano i canarini. Il gatto. Non hanno lasciato gli animali in balia del destino. Mi faceva impressione questa cosa. C’era un signore con un pappagallo.
Ci si fermava di continuo. Ci abbiamo messo quattro giorni per arrivare a Porubne. Scene dantesche. Dormivamo in macchina vicino ai distributori di carburanti. Solo più tardi avremmo scoperto che le pompe di benzina sono il bersaglio preferito dell’armata. Ci è andata bene. Nel buio sentivamo i missili fischiare sulle nostre teste. Sul passo nevicava. Ovunque la gente accendeva fuochi per scaldarsi. Le farfalle bianche morivano tra le fiamme. Il gelo era tremendo. Non abbiamo mai smesso di lavorare. Grazie ai satelliti il segnale internet non ci ha mai abbandonato. Abbiamo potuto mostrare in Italia le immagini dell’esodo».

Dal libro: Da Leopoli a Kiev. Un anno dopo