Semplicità, levità 13 Aprile 2022 – Posted in: BOOKS, FOOD

La mia amicizia con Gualtiero Marchesi è stata breve, ma singolare: avevamo un gran numero di convizioni tacite che ci permettevano di dialogare come se ci conoscessimo da molti anni.

Ci siamo incontrati per caso, in un’occasione pubblica. Era il 2012 ed eravamo stati invitati a un ampio dibattito sulla vexata quaestio della riapertura dei Navigli a Milano. Eravamo in un grande teatro. Gli oratori si succedevano sul palco e ricordo che ascoltai con molto interesse il discorso del Maestro, un discorso incisivo, sincero e, soprattutto, semplice. Poi venne il mio turno, feci il mio piccolo speech e tornai a sedermi al mio posto. Ricordo che, guardando i volti delle persone che erano alle mie spalle, scorsi immediatamente quello di Gualtiero che era seduto nella fila dietro la mia. Lo salutai subito con una spontanea simpatia e lui cominciò a sorridere sulla sua età, sostenendo che era semplicemente un “diversamente” giovane. Ma lo disse con una grande delicatezza e un’ironia lieve. Fu così che cominciammo a parlare insieme, sino a che giustamente non ci interruppero, dato che stavamo disturbando almeno due file di poltrone.

Mi colpirono, in quel primo incontro, la semplicità e la levità del discorrere di Gualtiero Marchesi. Era una semplicità in parte naturale e in parte guadagnata, ricercata, conquistata. Era il suo modo di porsi con gli altri e di aprirsi loro per comunicare il suo modo di vedere le cose e ciò che gli stava a cuore. Gualtiero era un osservatore attento delle persone e delle cose. Entrando in un interno, sembrava che cercasse di inquadrare con una sorta di telecamera interiore l’ambiente, la disposizione degli oggetti, l’arredo, i colori, il contesto. E lo faceva con discrezione. Ancora una volta, con una certa levità. A volte, sembrava una persona assorta in remoti pensieri.

Mi sono accorto di questa sua caratteristica più di una volta. Quando fu invitato con il genero e principale collaboratore Enrico Dandolo alla Fondazione Campus di Lucca, una Fondazione che, tra le altre cose, offre agli studenti corsi di studi universitari in discipline del turismo di primo e di secondo livello, grazie a un consorzio con l’Università di Pisa, di Pavia e di Lugano. Ci mettemo a discutere nella sala della biblioteca e mi resi conto del forte interesse di Marchesi per i modi della formazione dei giovani. O quando, qualche anno più tardi, lo invitammo a tenere la prolusione per l’inaugurazione dell’anno accademico alla Fon- dazione Campus. Mi viene in mente che la sera prima eravamo stati a cena in un bel ristorante di Lucca. Quando il Maestro entrò nel ristorante che era gestito da uno dei suoi tanti allievi e, soprattutto, quando entrò nelle cucine con tutto il personale schierato, assistemmo a una sorta di cerimonia di grande semplicità e, al tempo stesso, di silenziosa solennità. C’erano nello staff alcuni giovani che sembravano al cospetto di una delle loro star preferite. Nelle cucine, su cui il Maestro esercitava il suo sguardo attento e discreto, si respiravano il rispetto, la stima e la gratitudine per chi aveva nel secolo scorso profondamente innovato e trasformato la cucina italiana sullo sfondo della cucina internazionale. E aveva avuto una cura sistematica per la formazione di una generazione di allievi che avrebbero raggiunto esiti importanti e significativi.

Nella sala della biblioteca della Fondazione Campus avevamo parlato a lungo di formazione dei giovani, scambiandoci idee, resoconti di esperienze, esempi di buone pratiche. Gualtiero mi accennò al suo progetto educativo che, confesso, mi ricordava qualcosa dell’Accademia, quella di Platone dato che, dopotutto, il mio mestiere è la filosofia. L’idea di Marchesi era quella di un percorso quasi di “iniziazione” che dalla cultura e dalla pratica del “cuoco” pervenisse a una formazione personale in cui dovevano giocare un ruolo essenziale le arti, a partire dalle arti visive sino alla musica.

La cosa mi colpì e, incuriosito, gli chiesi il perché di questa sorta di “ascesa” artistica nella paideia degli allievi. Gualtiero me lo spiegò con poche parole e con inevitabile semplicità. Il punto importante è che vi è una connessione implicita fra il fare cucina e il fare arte. Non solo nel senso che quella del “cuoco” (adotto non a caso il termine semplice e ordinario che piaceva a Marchesi) è certamente un’arte o può divenirlo, ma nel senso che il fare cucina è un’attività che si inscrive in una più ampia costellazione di attività che trovano la loro espressione piena nei linguaggi dell’arte. Per questo, secondo Gualtiero, l’educazione dei giovani doveva progressivamente giungere alla conoscenza e al padroneggiamento dell’esperienza artistica nella varietà dei suoi linguaggi.

Del resto, basta pensare al rapporto stretto fra l’arte visiva e la morfologia del piatto, il suo cromatismo, la sua forma in rapporto ad altre forme e al contesto. Questa elementare considerazione rende conto del perché, quando Marchesi promosse la sua Fondazione, era naturale che nel comitato scientifico figurassero artisti, pittori, musicisti oltre che filosofi e studiosi di ambiti diversi da quello del “crudo e il cotto”.

La Fondazione fu istituita da Gualtiero Marchesi e dalla sua famiglia, in cui l’arte – e in particolare la musica – era di casa, nel marzo 2010 nella leggendaria via Bonvesin de la Riva a Milano. E non a caso, come accennavo, nella sua forma originaria la Fondazione prevedeva un Comitato Artistico Scientifico composto da personalità impegnate nei diversi campi, con particolare riferimento alle arti e ai loro linguaggi. Marchesi era convinto che il cuoco dovesse “pensare”. E gli ingredienti del suo pensare erano certamente quelli che derivavano dalla sua pratica e dalla sua tradizione, ma dovevano essere integrati con le forme dell’arte. In questo modo era possibile pervenire alla massima semplicità nell’arte del cuoco. Essa raggiungeva il massimo punteggio in valore quando innovava avvalendosi dei frammenti e delle tessere del mosaico della tradizione. In questo Marchesi pensava alla ricetta per il cuoco come a uno spartito per l’interprete musicale. Per quanto il Maestro fosse piuttosto riservato e sobrio nell’esplicitare la sua prospettiva sul rapporto fra cucina e arte, credo si possa avanzare una congettura. Come continuando il dialogo con lui. Vediamo ora di chiarire la natura della congettura.

Penso che, da un punto di vista astratto qual è quello della filosofia, il tema dominante della riflessione e della creatività di Marchesi fosse quello della forma nella varietà delle sue accezioni. La relazione fra l’opera dell’artefice nella cucina e l’opera del pittore, dello scultore o del compositore è generata dal semplice fatto che, in ogni caso, non vi è forma che non emerga dalle variazioni e dalle relazioni quasi combinatorie con altre forme.

Mi sembra quasi di poter dire che, quando era come assorto e inseguiva le ragnatele dei suoi pensieri, Marchesi entrava nel mondo delle forme, ne cercava le connessioni, la storia, la dipendenza le une dalle altre, le metamorfosi che davano luogo a mutamenti inaspettati. Il paesaggio delle forme era, forse, in quei casi il suo paesaggio mentale. E le virtù “del buono, del semplice e del bello” si addicevano impeccabilmente al suo mondo di forme. Ed era grazie allo sfondo delle forme che l’artefice della ricetta o dello spartito non andava pensato come un creatore ex nihilo del nuovo, ma come uno addetto al bricolage con le forme ereditate che, grazie al senso del passato, inventava, creando, il futuro. In cucina come nell’atelier.

La mia congettura rende anche conto dello stile di Marchesi che amava citare Paul Klee in proposito (“io sono il mio stile”). E, soprattutto, essa esplicita le ragioni del fondamentale interesse di Marchesi per l’educazione e la formazione dei giovani. Giovani allievi, che possono a volte diventare nel tempo discepoli. Il cuoco che “pensa” ha bisogno di un processo di educazione che gli consenta a mano a mano di sviluppare la sua capacità riflessiva, ideativa e immaginativa. Anche il più audace esercizio di immaginazione non nasce nel vuoto pneumatico, ma prende le mosse e l’energia dall’esperienza di un apprendimento serio e rigoroso. Perché, come ho accennato, per Gualtiero l’innovazione non è mai indipendente dalla tradizione e dal corpo a corpo ingaggiato dall’artefice con il mosaico del passato ereditato. Pena la fatuità effimera. Come scrive infatti Marchesi in uno dei suoi tanti appunti, “la buona cucina è il frutto, nello stesso tempo, dell’invenzione e della tradizione, l’una e l’altra in un rapporto di giusto equilibrio. In questo senso non c’è una nuova cucina, non ci sono che delle cucine libere e creatrici. Poiché una cucina che fosse solo invenzione, ricerca ad ogni costo dell’originalità e delle novità, cadrebbe ben presto nella stravaganza, e una cucina che si volesse tradizionale al 100% sarebbe monotona e noiosa, cioè sazia”.

Quando persone speciali come Gualtiero Marchesi ci lasciano, la persistenza delle loro impronte sulle nostre memorie le rende tuttora compagne di viaggio e di dialogo nel tempo. Il Maestro era convinto, in fondo, che la cucina fosse “un’opera d’arte” e del resto pensava che avremmo ben potuto chiamare “opere” i piatti che nascessero da un progetto. Per questo, possiamo formulare congetture filosofiche del tipo della mia a proposito del ruolo cruciale delle forme nella cultura e nella pratica di Marchesi. Perché, in realtà, vorremmo sentire ancora la sua voce nel dialogo che pensiamo ininterrotto. Forse, ciò che possiamo fare è riflettere e ricostruire la vicenda di artefice gastronomico di Marchesi. Non per il mero gusto del museo o dell’archivio che pure è prezioso, ma per perseverare nel progetto di una pratica o, meglio, di un insieme di pratiche illuminate dal pensiero, dalle arti e dalla riflessione.

Credo che Gualtiero Marchesi sarebbe contento della faccenda e accetterebbe di accompagnarci nel viaggio, anche in tempi difficili. E, in ogni caso, nei tempi che cambiano. The Times They Are a-changin’, per dirla con Bob Dylan, e Omnia mutantur, per dirla con Pitagora nel gran finale delle Metamorfosi di Ovidio.

 

Salvatore Veca
contributo pubblicato nel Quaderno Cucina|Opera|Arte