Vitality . Giancarlo Vitali Time Out 29 Agosto 2017 – Posted in: ART, BOOKS
Si fosse presentato nella Contrada del Morone, al numero 1171, centonovanta anni fa, Giancarlo Vitali vi avrebbe incontrato Tommaso Grossi, da Bellano, ospite del conte Alessandro Manzoni, oriundo lecchese, che aveva appena concluso un romanzo, con un incipit novenario, «Quel ramo del lago di Como», ma solo con immagini di parole. L’Adda proseguiva il suo corso, e la historia il suo percorso narrativo di uomini illustri e non, in un tempo flagellato dalle guerra, dalla fame, dalla peste. Il paesaggio – e si sente sussurrare landscape – quello di Lombardia, dai colori autunnali, un cielo bello quando è bello, distese di acqua illuminate dalla luna, un verde spesso assetato di pioggia.
Allo “Scrittore degli scrittori”, Giovanni Testori avrebbe subito trasmesso, studiando di mettere in scena i suoi Promessi sposi alla prova, una richiesta per il pittore di Bellano, quella di anticipare tanti illustratori in attesa, e di dare, lui, Giancarlo, nato sulle medesime sponde piscatorie, un volto ai personaggi in azione tra Lecco e Milano, nel romanzo a lieto fine, e nell’antiromanzo dell’ingiustizia.
Nei tre percorsi pittorici – la natura, il grottesco, la malattia – il visitatore provveduto deve saper leggere nella Casa che è di Alessandro Manzoni, la sua vicenda famigliare (deve vedere seduti a tavola, nella grande cucina, i volti di Lui, di Lei, dei sei figli presenti nei felici anni di Renzo e Lucia, composti al piano superiore nel fotogramma della Bisi), il messaggio del suo verisimile e del suo immaginario; in una oltranza di trasparenze (là dove è celato l’espressionismo espressivo). Si avverte da subito e si verifica in exitu, dovunque ogni visitatore lo collochi, con sorpresa, che in queste stanze Lui attendeva da troppo tempo i due illustratori, lontani e complementari.
Invitato da Giancarlo, Manzoni si congeda con gratitudine dall’interlocutore non previsto, lieto di essere stato guidato da lui – si chiama Peter Greenaway – in luoghi pensati come troppo remoti, magicamente irreali, e ora esplorati con passo dubbiosamente curioso, e dove ritornare.
Forse Manzoni accarezzerà i cani di Velasco a guardia della sua Casa, riconoscendo nel loro porsi domestico, tra cortile e giardino, un omaggio in contemporanea all’amicizia sua con Tommaso, per quel cane che, nel capitolo XI del romanzo, introdotto da «un branco di segugi» più sulla via del verde (ma green non è consentito un indegno gioco di parole), «leva il muso, odorando il vento infido».
Forse Manzoni si proverebbe a collocare, nella sala da pranzo, un campo totale della tavolata del capitolo V, perché quel ladro può essere evoluzione naturale di don Rodrigo (per il cuoco si rimanda a quelli di Giancarlo), fermo restando l’incubo degli antenati in gorgiera?
La Casa, ripopolata dagli oggetti della vita quotidiana, conduce alla morte: qui veramente di casa: segnali materiali metonimici si intrecciano sul palinsesto di un fluido quadrisillabo sdrucciolo inglese, da tradurre non nella statistica ossitonia di mortalità, ma con il Dante «del viver che è un correre alla morte», o con la esatta parafrasi del poeta di Recanati «vita mortale», dove si inverte la direzione del titolo esposto: «Mortality-Vitali Father and Son», con la scansione prosodica in calando sillabico e in crescendo accentativo.
Ma mortality ci accompagna a un viaggio, non alla sua fine. Gadda, che ha intitolato una raccolta di saggi I viaggi, la morte, dialogherebbe volentieri con il regista-pittore gallese, ma di Caravaggio. Lo spiegava anche il don Ferrante del Fermo e Lucia, e a «gente» cui avrebbe dato il ruolo di comparse in certe tele o pellicole, «gente che non abbia mai toccato il limen della filosofia. Non basta parlare, a proposito e a sproposito, di vibici, di esantemi, di antraci, di buboni violacei, di foruncoli nigricanti: tutte cose belle e buone, tutte parole rispettabili: ma che non fanno niente alla questione… ».
Il quadro dipinto dalle «parole rispettabili» del negatore della peste e dei suoi esiti mortali, accende e folgora con due colori aggettivali, violacei e nigricanti. Li offre ai nuovi figuratori, l’atteso e l’inatteso.
Manzoni non ha dato colori alla morte, ne descrive l’appressamento e l’esito, l’avvicina e la segue, non la rappresenta in azione: non per Ermengarda, «rorida / di morte il bianco aspetto», non per Napoleone: «Ei fu», non per Rodrigo o Cristoforo, non per gli anonimi dai «volti abbattuti dal patimento, o contratti dallo spasimo, o immobili nella morte». Le azioni diversamente dolorose della fine-vita sono alluse e redente da alcuni letti bianchi, nella corsia di un perenne lazzaretto. I due interlocutori figurativi, da una parte fermano dall’altra sembrano trattenere, quei tre verbi che il latino di Virgilio (e della liturgia) fa agire sugli uomini, pazienti soggetti grammaticali, figurine schiacciate su un schermo psichedelicamente bianco. Sono tre verbi che Manzoni conosceva, e coniugava: si nasce, si soffre, si muore. Conducono a spazi comportamentali dove uomini e donne subiscono, non agiscono.
Dopo l’appuntamento con l’ultimo dei suoi lunghi giorni, Manzoni riposa sereno nella bara – che è commovente e vitale vedere riaperta – non lontano da noi.
L’architetto americano Kracklite (nomen omen?) non realizza la desiderata Mostra su Étienne Louis Boullée. Si arrende a lui e al pensiero di Newton, prima di buttarsi nel suo oltre si prova a tendere (sfidando anche il suo regista) le braccia, come in croce. Ha vissuto non molto a lungo, tra le litografie di una Roma pinelliana, ne ha sfuocati i colori, li ha virati al nero e al bianco (forse troppo accecante), si volge verso il suo time out.
Il fascino del percorso e del ripercorso si insinua anche dalla provocatoria iterazione di ostensioni corporee e nutritive che scongiurino la (n)sufficienza.
Manzoni non vuole consegnare agli interpreti di mortality la estrema scommessa cristiana «di chi sperando muor», ma affidare loro due figurazioni floreali ai confini dell’ultima solitudine, La prima, troppa nota, a rendere «bella» la scheletrica Signora dello stendardo processionale:
… morire insieme?, come il fiore già rigoglioso in su lo stelo cade in un col fiorellino ravvolto ancora nel calice, al passar della falce che agguaglia tutte l’erbe del prato.
La seconda, per un interrogativo, anzi per un invito a interrogare, a interrogarsi:
A Quello domanda, o sdegnoso,
perché sull’inospite piagge,
al tremito d’aure selvagge,
fa sorgere il tacito fior,
che spiega davanti a Lui solo
la pompa del pinto suo velo,
che spande ai deserti del cielo
gli olezzi del calice, e muor.
Angelo Stella
Presidente del Centro Nazionale di Studi Manzoniani
pubblicato su Mortality Vitali