L’inedito “La città provvisoria” 19 Maggio 2016 – Posted in: BOOKS

La prefazione di Patrizia C. Hansen all’inedito di Franco Vegliani, La città provvisoria.

Velasco Vitali

Opera di Velasco Vitali

I testi inediti che questa opportuna pubblicazione offre alla fruizione dei lettori riveleranno a quanti ricordino i più noti romanzi di Franco Vegliani nuove ed anche impreviste ambientazioni, scenari e prospettive molto diversi, fors’anche stranianti, per contenuti e intonazione, rispetto alla sua narrativa sinora nota. Un altro Vegliani, parallelo – per così dire – rispetto alla sua produzione conosciuta, parallelo come la realtà che in queste pagine egli immagina adiacente alla dimensione nella quale gli uomini credono di vivere e di agire: e che per immediati inquietanti motivi risulta a noi, qui e ora, incredibilmente famigliare.
La lettura dei 18 dettagliati articoli della Costituzione della comunità di Kapra, introduce in una dimensione apparentemente astratta, dalle logiche incoerenti ma neppur tanto sottilmente oppressive, che descrivono una collettività rigidamente governata da norme tanto puntigliosamente stilate quanto del tutto contraddittorie in sé, giacché i singoli, minuziosi articoli prevedono obblighi e interdizioni spesso palesemente contrastanti o del tutto ininfluenti sui comportamenti dei suoi abitanti. Uno spazio, questo della comunità che lo scrittore descrive, privo di tempo e di dimensioni riconoscibili, di coordinate certe, come peraltro precisa l’illuminante incipit: «Kapra non è situata», così fluttuante in un’indeterminatezza che si è data per esercitare una severa equidistanza dagli estremi, che pare essere il suo severo obiettivo.
Una coesistenza di apparenti concessioni alla libertà individuale e di espliciti e surreali divieti rende questa singolare Costituzione un testo dai sottintesi quasi irridenti come suggerisce, tra gli altri, l’articolo Sedicesimo: «Le opinioni in genere, ivi comprese le opinioni politiche, sono in Kapra libere senza alcuna limitazione. Ritenendole prive di effetti, la legge non le tutela né le garantisce». L’insieme delle norme, commenta il narratore, regola e contempera «la vita, le opere e i costumi dei conviventi nella Comunità», in perfetta sintesi di coercitivo equilibrio e preventiva sollecitudine, lasciando ad appositi «uffici» di definire la liceità e le modalità delle attività umane e finanche del lavoro, ritenuto contrario «ai parametri morali e al fondamento dell’esistenza». E se la Costituzione dà «facoltà ai singoli di morire anticipatamente», fissa al contempo la soglia massima di vita per impedire che le singole individualità, vincolate dalla molteplicità di relazioni e di influenze, ne possano essere impedite nel loro «libero sviluppo». «La vecchiaia dunque era stata soppressa», si dichiara nel commento dal quale emerge chiaramente quale fosse l’aspirazione di quel dettato, eliminare le dissonanze e le emotività foriere di squilibri individuali e sociali.
«La libertà assume senso per effetto della sua privazione. […] Problematico era invece il metodo da applicare per raggiungere la libertà attraverso la sua privazione»: è questo, se vogliamo, il compendio migliore, evidentemente più agghiacciante, del disegno concepito dagli estensori della Costituzione, ai quali non era sfuggita la necessità di creare un «ufficio addetto agli svaghi» e regole codificate per l’abbigliamento nonché per ogni ambito e dimensione della vita individuale e collettiva. Alienazione, massificazione, conformismo estremo e totalizzante, perdita di senso e di coscienza critica, di questo ci parla Kapra, entità disanimata nella quale è lecito riconoscere tutte le imposizioni e le alienazioni di una società a noi contemporanea e vicina, i suoi intollerabili fenomeni di omologazione e di mediocrità diffusa, priva di contenuti essenziali perché disarticolata e resa inerte dalla banalizzazione globale e dalla cieca obbedienza a miti di fumo. Vegliani ne segnalava già gli avvisi nel romanzo La carta coperta, all’apparire di inedite e prevalenti forme di omologazione a dettami collettivi e intimamente aridi ai quali il protagonista assegnava, semplicemente, l’attribuzione di «crudeltà».
Alla scansione asciutta della carta costituzionale di Kapra si affianca il dialogo filosofico de La città provvisoria, racconto del confronto tra il narratore – appena precipitato con la sua navicella su un astro sconosciuto a seguito di una «spedizione» sfortunata, e soccorso dai suoi ignoti ma similmente umani abitanti – e un loro autorevole esponente, Igor, che lo introduce alla realtà nella quale il protagonista è inaspettatamente piombato. A fronte di aspetti e atteggiamenti di confortante somiglianza con quelli terrestri, egli scopre progressivamente l’attuazione, su quella «stella», di una legislazione coercitiva e omologante che, gli rivela Igor, «regola l’uso delle nostre giornate e delle nostre vite», rese libere dalla necessità di lavorare e di produrre perché attività assegnate alle macchine per consentire agli abitanti di vivere affrancati dal bisogno. Per altro verso, il narratore scopre con sgomento appena trattenuto che su quel pianeta evanescente non esistono anziani, perché, gli spiega il compagno, «i nostri sapienti si sono accorti infatti che in una convivenza i vecchi non sono utili ed è facile che diventino dannosi, soprattutto perché non sono felici. Chi non è felice non giova mai a una convivenza». In questa cornice, la natura dei sentimenti e delle aspirazioni è accortamente pianificata e svuotata di insidie mentre è incoraggiato l’uso di stupefacenti «che stimolano nell’uomo facoltà altrimenti sopite o inerti», le quali tuttavia non avrebbero alcuna finalità riconosciuta dai legislatori di quel pianeta.
La conversazione tra i due assume via via il tono di un pur educato contraddittorio fra tesi opposte, dal quale emerge l’assunto coercitivo della legislazione di quel pianeta, ovvero che la «libertà è uno degli ideali più pericolosi per la sopravvivenza dei più deboli». «I nostri filosofi sono arrivati alla conclusione che la conoscenza diffusa nei singoli delle ragioni di una norma, non porta ad altro risultato che a quello di rendere più difficoltosa e meno probabile l’obbedienza» sentenzia Igor, che gli svela l’uso dei sistemi robotici applicati alla produzione, collocati in luoghi celati per sottrarli alla vista in quanto «spettacolo privo di grazia».
In quella dimensione rovesciata e indifferente anche gli edifici pubblici, che gli vengono additati, sono disabitati e non rispondono ad alcun servizio «dal momento che nessuno li abita, […] e non vi si svolge nessuna attività», e tuttavia risultano utili «perché inducono nell’animo del passante, e contribuiscono a mantenere nella sua memoria, un senso salutare di reverenza verso un potere che non esiste». Una rivelazione che nel narratore palesa d’improvviso «il senso davvero raccapricciante, […] a quale costanza di errori possano condurre le abitudini e le inerzie dell’immaginazione»: ecco riemergere, famigliare e costante nella narrativa di Vegliani, questo tema, del rischio insieme esaltante e ambivalente delle «tentazioni, le insidie e gli agguati del sentimento», che, come ne La carta coperta, riaffiorano dalle profondità dell’anima per qualificarsi come uniche risorse in grado di contrastare la retorica della banalità e il vuoto intellettuale della serialità. Nel dialogo tra i due protagonisti de La città provvisoria si scontrano due visioni apodittiche dell’essere e dell’esserci: la normalizzazione sociale e culturale che assume una tragica colorazione totalitaria e l’indifferenza tecnologica per un verso, e, per l’altro, l’inquieta ricerca del vero, anche drammatico, attraverso i dissidi della storia e della coscienza. Una conferma ne viene al narratore dalla percezione che, in quell’universo disciplinato e sottomesso, il mare sia stato estromesso dall’orizzonte perché «a differenza dei laghi e delle paludi è un veicolo perenne di imprevisti […]. Attenua o vanifica ogni fede nelle cose presenti e conosciute, riduce l’attendibilità del concreto. […] Le buone ragioni si sa che traggono alimento dal dubbio». Si manifesta a ben vedere anche in questa narrazione inconsueta e chimerica – apparentemente distante dalle altre di Vegliani – la tentazione della libertà intellettuale, dell’esperienza morale, dei molteplici confini interiori che l’individuo patisce per aspirare alla sapienza possibile: l’intimo affrancamento da una esistenza unidimensionale e mistificante per «un’altra certezza […] ma una certezza del profondo, che non può essere descritta, né vista, né toccata […]», come egli la definì ne La carta coperta. Un’ancora di salvezza e di riscatto, la sola autentica e possibile, ma tutt’altro che prevedibile e comoda come ci hanno insegnato le tortuose e inquiete rotte consegnateci da Franco Vegliani.

Patrizia C. Hansen