Terra della Madre Terra 30 Ottobre 2012 – Posted in: Archivio

Era dalla prima edizione, nel 2004, che non andavo a Terra Madre – il salone dei “contadini” nel Salone Internazionale del cibo Slow Food.

Di allora ricordo i volti di molti uomini e poche donne, ma entrambi smarriti in quella meravigliosa giostra creata da Carlo Petrini: contadini di tutto il mondo (erano circa 130 i Paesi rappresentati) riuniti nel Palazzo del Lavoro di Torino per confrontarsi con un diverso modo di intendere la produzione del cibo: attento alle risorse ambientali, agli equilibri planetari, allo sviluppo sostenibile, alla salvaguardia della biodiversità, alla qualità dei prodotti e alla qualità della vita dei produttori”. Smarriti, ma con una voglia contagiosa di una vita migliore.

È tornando alla Terra che si vince, diceva già Petrini. Allora, quegli agricoltori incontrarono solo gli addetti ai lavori in uno spazio lontano dal Salone. Ed è stato così fino alla scorsa edizione.

Quest’anno c’era un vento nuovo. Slow food e Terra Madre si sono unite e anche il pubblico ha potuto avvicinarsi alle realtà dell’altro mondo: tante, bellissime e meritorie. Ho trovato molti uomini e tante donne, meno smarriti e più determinati, coraggiosi e in certi casi fieri. Tante le storie. Troppe per elencarle tutte.

C’era il sorriso di Abdelouhab El Gasmi, trent’anni, laureato in Economia ad Agadir, venuto qui per far conoscere i datteri di Mhamid El Ghizlane fazzoletto di deserto nel sud del Marocco: danno da vivere a una piccola comunità di giovani artigiani. Lui è uno di loro e dice che la sua vita e la fiducia nel futuro sono migliorate da quando ha deciso di seguire le orme di suo nonno, ma con una laurea in tasca. Come il nonno coltiva datteri e con quei frutti produce sciroppo, ma diversamente dal suo avo, Abdelouhab ha la consapevolezza che proteggendo quel prodotto della terra, anche il Pianeta otterrà benefici. Ed è positivo su i suoi coetanei: si stiano muovendo nella sua stessa direzione, dice. Sul riavvicinare i giovani alla terra e alle tradizioni gastronomiche locali è ottimista anche la greca Eleni Vasileiadou impegnata nella rete Slow Food Youth Network (SFYN) del suo Paese. E la SFYN per me è stata una scoperta fantastica: emozionante vedere così tanti under 30 ragionare insieme di biodiversità, di progetti glocal, mentre si scambiavano esperienze pratiche: “quale sementi usi?”; “prova a potare in questo periodo”; “hai letto di quella nuova tecnologia per raccogliere le olive?”. Queste le frasi che giravano tra loro. Ho imparato, poi, che la soia coltivata vicino a Fukushima non è radioattiva: è il messaggio che ha portato Yoko Suda (trentenne anche lei) che lavora la terra proprio in quella parte di mondo. Passeggiare tra gli stand è stato realmente un viaggio: il naso è partito per l’Asia davanti al mega stand di spezie, radici, tuberi e riso; il palato ha provato un turbamento sorseggiando un succo di erbe selvatiche dello Sri Lanka.
Sul percorso ho degustato piatti cucinati da chef dai nomi tipo: Heida Gdura Hentati, Imtinen Aydi, Duminda Abyesiriwardena, Lambert Chiang, stelle di un nuovo firmamento dell’alta cucina, nell’altro mondo. O in uno più vicino, come quello arabo-israeliano per il quale, in segno di pace, sono venuti qui a cucinare insieme il cuoco Husam Abas del ristorante El Babour di Umm el Fahem, vicino a Nazareth, con le cuoche palestinesi Fatima Kadoumi e Falak Nasser di Nablus, il centro di sole donne che hanno dato vita anche alla prima scuola di cucina femminile. Tutto, in questa edizione di Slow food-Madre Terra, pareva suggerire con più forza di sempre: è dalla Terra che passa la rivoluzione del terzo millennio. (Sarà per via della crisi?). Ho assaggiato uno specialissimo yogurt senegalese nell’area dedicata all’Africa e, a quel punto, è stato impossibile non inciampare nei 400 metri quadrati di Orto africano: ortaggi, erbe medicinali, piante anti insetti nocivi. Un’idea geniale, rappresentativa del progetto Mille orti in Africa e preludio a una conferenza che ha sintetizzato perfettamente il lungo, duro lavoro che – degustazioni e glamour a parte – sta dietro al cibo, la sua cultura, la produzione, lo scambio e anche dietro alla guerra delle sementi: la terra è nostra, di chi ci abita, l’identità locale è una rivoluzione possibile. E questo in Africa vale di più: «Dobbiamo credere nell’Africa, difendere con orgoglio la nostra indipendenza gastronomica», ha affermato Edward Mukiibi, coordinatore in Uganda del progetto Mille Orti.

Da sempre penso che alla selvaggia colonizzazione di quel Continente – sottomesso anche gastronomicamente – e al saccheggio delle sue ricchezze, incluse quelle agricole, farà seguito una completa, definitiva, inesorabile nemesi: noi dovremmo risarcire tutto all’Africa. Come ha detto Carlo Petrini, all’apertura della conferenza, dall’Occidente non può arrivare che una sola risposta: restituzione. E qui a Terra Madre 2012, i fratelli africani questa consapevolezza l’avevano scritta negli occhi. Finalmente.