Mancino, il piccolo principe 22 Novembre 2010 – Posted in: Archivio

mancino“Dottore, mi raggiunga al quinto piano” è stata la risposta serafica, appena sussurrata, quando dalla reception gli hanno detto che ero arrivato. La reception è quella del Grand Hotel Principe di Piemonte, luogo vertice dell’accoglienza alberghiera viareggina. L’edificio è un trionfo di liberty piacevolmente anglosassone, accogliente e fresco, e al quinto piano c’è il ristorante. Giuseppe Mancino, trent’anni il prossimo aprile, ne è l’Executive Chef stellato. Dal corridoio lo scorgo di spalle, assorto in chissà quali pensieri, di fronte ad un’ampia vetrata in fondo alla sala dove sono disposti con cura una dozzina di tavoli in marmo di Carrara. Quando si accorge di me non noto alcun imbarazzo, anzi, venendomi incontro sorride garbato e aperto, in perfetto pandant con l’ambiente luminosamente leggero in cui ci troviamo. Mi mostra subito il ristorante, quello che definisce il suo habitat. La sala è ampia, accogliente, piena di luce e si affaccia sul raffinato roof garden dell’hotel. Mi invita poi fuori, in terrazza, e dai bordi di una sinuosa piscina mi presenta il mare e le alpi apuane, che in questa splendida giornata di novembre fanno corredo ad un panorama senza inutili commenti. Il rapporto si scalda quasi subito, grazie anche a qualche battuta in napoletano, la lingua madre che ci accomuna. Quattro chiacchiere per conoscerci meglio, mi offre una fresca birra artigianale, attinta dalla sua riserva personale, e comincia a raccontarsi. In Mancino traspare un pizzico di pudico orgoglio quando dice di avere iniziato prestissimo, alternando scuola e lavoro. La svolta professionale inizia dall’incontro con Rocco Iannone con il quale perfeziona il mestiere e la coscienza delle proprie capacità. il resto lo fa l’esuberante ambizione di emulare Alain Ducasse, per lui un grande mito. Alle prima domanda tecnica aggrotta appena un sopraciglio poi, sornione, si alza e prendendomi per un braccio mi chiede di seguirlo in cucina.

principe_piemontePer un attimo sono io ad intimidirmi: cosa vorrà farmi fare? All’interno, sul tavolo delle preparazioni – sistemato ordinatamente in una cassetta di polistirolo bianco – è in bella vista il frutto del pescato di stanotte. Ombrine, passere di mare e mazzancolle, ma affacciatomi con curiosità scorgo anche calamari, canocchie e sgombri. Mentre si dà da fare continua a raccontarsi. Sto attento ad ogni gesto, ad ogni puntualizzazione, spiega e dimostra. In ogni suo movimento traspare una sensibilità intensa, endogena, frutto di una fertilità insita, probabilmente ereditata dai luoghi di provenienza: l’Agro del Sarno – terra felix per antonomasia – che si percepisce forte e chiara in ogni approccio creativo.

La sua cucina appare subito orientata alla contaminazione ma solo attraverso un corretto rapporto olistico e sinergico tra prodotti, gusto, territorio e tradizione locale. Un’azione che si concretizza nell’assoluto rispetto di ciò che gli elementi in gioco: ingredienti, aromi, cotture e valore estetico, raccontano.

Mi appare attento, calcolatore, giudizioso ma anche spavaldamente pioniere, si nutre di curiosità lecita che soddisfa con autorevole controllo.

cucinaLa sue preparazioni trovano poi forma nell’equilibrata interpretazione, un risultato, spiega, ottenuto elaborando le diverse istanze degli elementi, che a me appaiono addomesticate da geniali e fantasiose intuizioni, e concretizzate grazie al valore aggiunto di una brillante capacità di mestiere.

Trenta minuti dopo mi sono ritrovato seduto a tavola con lui, per una degustazione guidata in quattro portate. Un’esperienza intrigante consumata a ristorante chiuso, solo lui, io e il suo aiuto. Mi mancava. Ciò che abbiamo mangiato è nato là, in cucina, mentre chiacchieravamo, elaborato con quello che era disponibile e non era poco. Trovo quindi superfluo perdermi in un esercizio di affabulazione per descrivere dei pezzi unici; tocca invece a voi scoprire se a Mancino, prima o poi, baleni l’idea di inserirli a menù.