Una villa per sé e per gli ospiti 14 Giugno 2010 – Posted in: Archivio

La facciata Il corpo centrale dell’edificio è la Villa orginile Grand Hotel Villa Serbelloni, non bisogna farsi ingannare troppo dalla precedenza delle parole e, per una volta, leggerne il nome, partendo da destra. Con una semplice inversione, sillabando villa prima di grand hotel, il luogo ritrova non un senso perduto, ma quello di sempre, la parte e la prospettiva che fin dall’inizio ha dato forma alla punta di Bellagio, baricentro del Lago di Como.

L’edificio nasce come villa, quando il facoltoso conte Frizzoni decise di farne omaggio a sua moglie che ricambiò l’attenzione, infliggendo all’architetto tali e tanti consigli da costringerlo ad abbandonare il cantiere.

Tuttavia, nel 1854, per il compleanno della contessa, la villa viene inaugurata, mostrando tutta la sua bellezza: un rigore formale che s’impone senza drammi, senza forti contrasti di luce e d’ombra, suggerendo attraverso il portico e il loggiato, scandito dagli archetti a tutto sesto, il profilo di un luogo propizio al buon tempo, all’idea di villeggiatura.

Ambizione che la prospettiva stessa dell’edifico ribadisce, rivolto com’è verso il lago, l’unica via da cui si potesse giungere allora.

Villa e imbarcadero sono, quindi, gli elementi costitutivi e potremmo dire culturali che permettono di cogliere il nesso tra storia e paesaggio; sono i segni attraverso cui leggere una continuità di emozioni, il destino del posto, il suo genius. Il nome Serbelloni, inoltre, rimasto per diritto d’uso anche dopo la vendita della dépendance, divenuta nel frattempo sede della Fondazione Rockefeller, è lì a ricordare il pegno d’amicizia tra due gentiluomini, tra Carlo Sfrondati, morto senza eredi, e Alessandro Serbelloni che onorò il dono, investendo energie e risorse nell’abbellimento di quella proprietà.

Solo ricordando questo sovrapporsi di aspettative e attenzioni, questo desiderio di approdo come al termine di un lungo e lungimirante viaggio, si riesce a capire perché il fascino attuale pur attingendo al lusso ha, in realtà, a che fare con un tipo speciale di ricchezza.

Nel 1872, la villa divenne grand hotel, con l’aggiunta di due ali simmetriche che riescono ancora a sottolineare la solida eleganza del corpo centrale. E quando, nel 1918, Arturo Bucher acquista la struttura, ridotta in quegli anni a caserma con gli inevitabili danni, lega definitivamente le vicende della villa a quelle della famiglia, creando le premesse, perché tornasse ad essere soprattutto una c asa, la dimora che hai scelto e che ti sceglie, capoluogo di famiglia.

Il ritorno dell’ingegnere

«È tutta casa nostra – così Gianfranco Bucher sintetizza il rapporto di chi vive e lavora per e nel Grand Hotel Villa Serbelloni, una sorta di immedesimazione, capace di allargare ai muri, agli oggetti, agli ospiti e al personale la percezione di sé, il proprio modo di stare al mondo – eppure avevo deciso di non fare questa vita. Mi ricordavo troppo bene quando fosse pesante, come fosse raro avere i genitori tutti per noi e interdetto anche solo girare in bicicletta nel giardino.

«Volevo una vita normale che avesse al centro la famiglia. Per questo lasciai il lago e l’hotel, iscrivendomi alla facoltà di ingegneria meccanica di Zurigo. Finita l’università, trovai lavoro nella ditta Sulzer che progettava motori navali. Quelli come me, freschi di laurea, stavano tutti in uno stanzone a disegnare dalle 8 alle 12 e dalle 14 alle 17.

«Nessuno sapeva dire a cosa lavorassimo veramente, perché ci veniva affidato solo lo sviluppo dei dettagli. Una precauzione, motivata dal fatto che il rischio di spionaggio industriale era concreto tanto quanto la noia che mi assalì quasi immediatamente, resa ancora più insopportabile dal pensiero di venire depistati ad arte. Resistetti qualche mese e cambiai strada, entrando nel 1978, a ventidue anni, alla Scuola alberghiera di Losanna. Mio padre, che aveva avuto un percorso simile, non mi ha mai forzato e il ritorno sul lago fu, per così dire, un vero inizio anche se eravamo cresciuti a pane e albergo.

«Rispetto a mio padre, la scuola alberghiera mi aveva offerto la specializzazione che a lui mancava e i miei studi ribelli si rivelarono più che utili. A loro devo l’approccio ingegneristico, il piacere di metterci le mani che tuttora mantengo nella gestione del Grand Hotel Villa Serbelloni. Ma la vera sirena che mi ha riportato a Bellagio e mi trattiene qui è il tipo di lavoro. Si vive 24 ore su 24 senza un giorno che sia uguale al precedente».

Ambienti scintillanti e fragili

«Non è facile né custodire né mantenere un albergo così, e i veri problemi nascono quando devi intervenire per migliorare e cambiare – continua Gianfranco Bucher – quando Bellagio divenne facilmente raggiungibile anche in automobile fu proprio l’orientamento della casa, girata verso l’acqua, a porne il primo e il più grosso: aprire una hall sul lato sud, allargando quello che in origine era un corridoio. Il Grand Hotel risale alla fine dell’Ottocento quando tutto doveva sembrare e non essere, inseguendo l’arte come artificio, prova estrema di abilità.

«La decorazione onnipresente sostituisce le modanature con il trompe l’oeil, le colonne di marmo con colonne che ne imitano il colore e le venature. Anche i soffitti non sono affrescati, ma tirati a gesso e poi dipinti con tempere o terre diluite. Naturalmente, proprio il gesso, stando così vicini al lago, risente molto dell’umidità e bisogna intervenire continuamente. Una delle fortune di vivere in provincia, in zone rurali appartate, è che puoi ancora contare sugli artigiani. L’elettricista, l’idraulico, il falegname, se c’è bisogno, arrivano anche in piena notte.

«Fino a poco tempo fa, il Grand Hotel Villa Serbelloni aveva il suo laboratorio interno e alcune figure carismatiche tra cui Severino Castelli, un formidabile decoratore che entrava in albergo quando chiudevamo e per cinque mesi viveva in simbiosi con ogni centimetro quadrato di muro dipinto. Faceva parte di quella schiatta di maestranze che fecero l’Ermitage di San Pietroburgo, senza mai pretendere qualcosa di più della retribuzione dell’artigiano».

Servire il viaggiatore

Questo nell’arte alberghiera è il capitolo più delicato, aperto a generosi fraintendimenti. Ma se servire equivale a mettere a proprio agio, a seguire i bisogni, a sostenere il capriccio quando apre un occhio sulle possibilità della vita e quando mettersi a disposizione riesce a difendere la riservatezza, la pace e magari la solitudine, allora servire è un mestiere che rende umana la propria e altrui umanità.

«Questo – precisa Gianfranco Bucher – è un albergo di vacanza che un tempo, quando si arrivava da Londra in carrozza, durava mesi. Da noi funziona un’autoselezione della clientela. Chi scende al Grand Hotel Villa Serbelloni spinto dal desiderio di farsi notare sbaglia indirizzo e rifà i bagagli quasi subito. La grande crisi che stiamo attraversando ha sfoltito proprio questo tipo di clientela, senza tradizioni, con la voglia effimera di stupire e di stupirsi.

«Conseguenza dei tempi moderni dove la regola di mercato non è quella strettamente di produrre dei beni, ma delle novità. Se cedessimo al ricatto dell’ostentazione non potremmo difendere il cliente dalla lievitazione dei costi. Non è possibile che, altrove, una camera arrivi a costare anche e più di 10.000 euro a notte. La nostra migliore suite ne vale mille e cento, ma ciò che offriamo è il servizio.

«Che senso ha girare tutto sul piano dei soldi, perdere la giusta percezione della disponibilità, riempiendo l’ambiente di Picasso e maniglie d’oro? C’è anche chi favoleggia di butler pronti a prendersi carico del cliente ventiquattr’ore su ventiquattro. Se non si tratta di un ragazzo a cui sono stati infilati i guanti bianchi, allora assisteremmo al ritorno del vero maggiordomo!

«Nostro cliente è il viaggiatore che considera il Grand Hotel Villa Serbelloni la meta stessa del viaggio, che non cerca visibilità, che vuol fare a meno di fan e giornalisti. Il viaggiatore che giunge, seguendo il passaparola, sapendo di trovare una sintonia di vedute, un modo di vivere e saper vivere.

«Il successo di questo albergo, a cui concorrono con uguale impegno mia moglie, mia madre, mio fratello, tutto il personale sta nell’idea di poter ospitare il mondo in una casa privata, in una villa di famiglia.

«Per questo tipo di ambizione, l’equilibrio si raggiunge, dandosi i giusti mezzi sia sul piano materiale sia su quello più impalpabile della preparazione, del tirocinio. Proprio, perché della nostra casa si tratta, rinvestiamo ogni anno da uno a due milioni di euro, niente a che fare con chi pensa in termini quinquennali, puntando al ritorno del capitale, sfruttando all’osso strutture anche belle che, poi, fatalmente, debbono essere ricostruite. A ciò, va aggiunta una profonda consapevolezza da parte del personale che deve togliersi qualsiasi preconcetto di tipo pedagogico.

«Il cliente, infatti, non è cattivo e, soprattutto, comanda lui. L’ospite, in un albergo di lusso, è libero di esprimere i suoi desideri; non è possibile standardizzare troppo il superfluo come succede in molte catene alberghiere. Ci vuole poca intromissione e molto ascolto entro i limiti del reciproco rispetto. Se qualcuno desidera cinque cuscini di piume o la camera arredata con un mobile piuttosto che un altro va accontentato».

Il filmato di un ospite