Cagliari, città del mare 16 Giugno 2010 – Posted in: TRAVEL

Una finestra sul porto

L’hotel Miramare su via Roma

Due lapidi, nella loro laconica enfasi, definiscono il paesaggio in cui sta la città. Lapidi che ricordano altrettanti scrittori e il destino che li ha fatti incrociare con Cagliari. La prima, in piazza Arsenale, di fronte alla Cittadella dei Musei, è una semplice nota di bordo in cui si dice che Miguel de Cervantes “giunse nel mare cagliaritano, nel settembre del MDLXXII” di ritorno dalla battaglia di Lepanto, a bordo della galera Marquesa, avendo perso per una ferita l’uso della mano sinistra. L’altra è ai piedi della salita che porta a Castello, lasciato a destra il bastione San Remy, trasformato in scenografica scalinata, secondo lo stile aulico e borghese dei primi del Novecento. Vi si legge che qui “sorgeva appoggiata all’antico bastione del Basile” la casa natale del narratore e drammaturgo Giuseppe Dessì (1909-1977).

La città nasce, quindi, in simbiosi con il colle dove è stata fondata, aguzzandone ed elevandone le difese naturali e al tempo stesso ha di fronte una fetta di mare così ampia e definita da poterla battezzare col proprio nome. La baia degli Angeli su cui si affaccia diventa una sorta di corte d’acqua, di spazio mobile che amplia la vista. Tutto intorno resistono gli stagni e le saline, frequentati dai fenicotteri rosa, mentre alle spalle i monti ricalcano l’andamento semicircolare della costa. Questo doppio teatro, con in mezzo la città “incastellata”, regala netta una sensazione di vastità, a cui si aggiunge il vento sia quando porta aria dal cielo sia quando soffia bollente. Proprio la forma urbis, la pianta del colle fortificato, ricorda una nave con le strade che si intersecano come la struttura di una chiglia. Fino all’esodo per i bombardamenti del 1943, il colle aveva una sua identità trasversale: nobiltà e popolo vivevano fianco a fianco, consapevoli su piani diversi di una privilegiata separatezza. Non c’è da dimenticare che vi si concentrò il potere vicereale con tutta la sua pompa, il suo attrito su cose e persone e le relative fiammate di ribellione. Nel punto più alto si aprono, oggi, le sale del Museo archeologico, della Pinacoteca e dell’imprevedibile Museo d’Arte Siamese che riunisce le collezioni di Stefano Cardu, imprenditore e viaggiatore cagliaritano tra Ottocento e Novecento .

Difficile descrivere tutta la ricchezza del Museo archeologico, ma alcune opere hanno una fortissima carica evocativa. Innanzitutto, la serie di idoli femminili che nell’arco di duemila anni, dal 4.000 al 2.000 avanti Cristo, evolvono da forme prosperose ad un profilo geometrico, rendendo più profonda e astratta la raffigurazione della dea. Poi, i bronzetti nuragici e in particolar modo la piccola flotta di navicelle votive che, anche usate come lucerne, sembrano alludere ad altre navigazioni del cuore e della mente. Alcune sono decorate a prua da una testa di cervo o di bue, altre di ariete o di muflone. Certo, le più enigmatiche restano quelle, trasformate in posatoio di colombe, quasi prefigurassero una rotta per l’aldilà. In un’altra vetrina, ci si trova dinnanzi ad un gruppo di statuine, scavate a Monti Arcosu di Uta, che sembrano mimare una scena antica: il capotribù insignito della doppia dignità, simboleggiata dal mantello e dal lungo bastone nodoso, i guerrieri, gli offerenti e i due lottatori colti nel momento in cui il vincitore blocca a terra il perdente.

Nella sezione dedicata ai Fenici, spicca la maschera apotropaica maschile ghignante, rinvenuta a San Sperate, ritratto del demone Pazuzu e che forse racchiude il segreto del cosiddetto riso sardonico mentre tra le antichità romane e cristiane si vede il documento di congedo di un legionario e la lapide contro il maligno che recita: caserma del santo Longino centurione qui sta lontano dal signore diavolo. Interessante è anche la statua di terracotta, lunga 70 centimetri, che raffigura un giovanetto nudo che dorme sul fianco, avvolto nelle spire di un serpente che lentamente risale dalle gambe verso il petto e il viso. È stata ritrovata a Nora, nel luogo (punta del Serpente) dove sorgeva un tempio frequentato dall’età punica alla tarda antichità. Tempio di Eshmum, giovane dio che muore e resuscita, legando la sua vicenda all’alternanza delle stagioni e, poi, di Esculapio, dio romano della medicina. Il serpente allude alla sua capacità di rigenerarsi, perdendo le vecchie spoglie e di carpire i segreti della vita sotterranea. Per analogia, la malattia serra in spirali sempre più strette il paziente che la visita del dio svolge in senso opposto, liberandolo dalla presa. Il fatto, poi, che la figura giaccia addormentata ha a che fare con il rito dell’incubazione che prevedeva di passare la notte nel tempio, attendendo un sogno rivelatore.

Scrive un antropologo, Pietro Clemente, che una volta in continente non provò nostalgia per l’isola, ma per il mare. Era di Cagliari. E allora dove vedere il mare da sognare insieme a questa luce che lo incastona alla terra e al cielo? Primo passo: riconoscerne le viscere multicolori al mercato del pesce di San Benedetto; secondo, onorare la Madonna di Bonaria, nel santuario eretto per custodire la statua con il bambino, approdata sulla riva in una cassa di legno; terzo, una passeggiata a Calamosca e lungo il promontorio che termina con la Sella del Diavolo dove un tempo sorgeva il tempio della dea Astarte, a ovest del quale si allungano i nuovi quartieri della città e a nord la spiaggia del Poetto.