Orazio: poeta del Carpe diem e del vino 12 Maggio 2010 – Posted in: TRAVEL

«Tu non domandare – è un male saperlo – quale sia l’ultimo giorno che gli dei, Leuconoe, hanno dato a te ed a me, e non tentare gli oroscopi di Babilonia. Quanto è meglio accettare qualunque cosa verrà! Sia che sia questo inverno – che ora stanca il mare Tirreno sulle opposte scogliere – l’ultimo che Giove ti ha concesso, sia che te ne abbia concessi ancora parecchi, sii saggia, filtra il vino e riduci le eccessive speranze, perché breve è il cammino che ci viene concesso. Mentre parliamo, già sarà fuggito il tempo invidioso: cogli l’attimo, fidandoti il meno possibile del domani».

Carpe diem

Se la storia del Vulture è indissolubilmente legata alla figura dell’imperatore Federico II di Svevia, non bisogna dimenticare che questa terra ha visto nascere, molti secoli prima, uno dei numi della poesia latina dell’epoca augustea, Quinto Orazio Flacco che vide la luce a Venosa nel lontano 65 a.C.

Di umili origini, il padre era infatti un liberto, ebbe la fortuna di fare studi eccellenti nelle migliori scuole di Roma grazie ai sacrifici della famiglia, come ancora oggi capita a tanti figli di questa terra lucana. Le Odi, i Carmina Saecularae e le Epistole sono alcune delle straordinarie opere composte dal poeta di cui resta la celeberrima breve e efficace allocuzione del “carpe diem”sulla quale spesso si indulge magari rimandando al suo significato più banale di cogliere l’attimo. E da buon epicureo che conosceva le prelibatezze della tavola, il poeta è altrettanto famoso per il suo Nunc est bibendum, ode che celebra i fasti di Augusto dopo la morte di Cleopatra, e che invita tutti ad un conviviale e festoso brindisi con il vino.

Rimandando ad altra sede la lettura filosofica della poesia oraziana, qui ci piace sottolineare un aspetto poco conosciuto del poeta vate, ovvero la sua profonda conoscenza del vino: Orazio per le competenze che dimostra in fatto di tecniche di vinificazione ed enografia si può considerare un vero e raffinato enologo del suo tempo. Intanto si può affermare che Orazio conoscesse una discreta quantità di vini, citati nelle sue odi, tanto da permetterci di ricostruire una sorta di prontuario. Eccolo: il vino Cecubo è quello più ricorrente, un’ambrosia che apprezzava assai e cui spesso ricorreva per festeggiare un lieto evento con l’amico Mecenate (Epodi, 9,1-6). Altrettanto graditi al poeta sono il vino di Veio ed il Falerno, che raccomanda di usare con parsimonia o nelle grandi occasioni dato l’alto costo (non dimentichiamo che Orazio viveva in condizioni assai modeste economicamente), quello di Calvi ( località vicino Capua), che il poeta è disposto a regalare al fraterno amico Mecenate solo in cambio di un vaso di nardo ( Odi, IV, 12). Ma il Nostro non disdegnava neppure vini meno prelibati, come quelli provenienti dalla zona del Minturno o dalla Sabinia.

Ma è nelle tecniche della lavorazione e conservazione del vino che Orazio dà un saggio della sua competenza invitando a travasarlo nelle anfore greche (Odi, I, 20), chiuse già allora con tappi di sughero, argilla o cera e poi sigillati con la pece (Odi, III, 8), e poi a purificarlo attraverso l’uso di filtri, detti colum (Satire, II, 4, e Odi, I, 11). Ma questa approfondita conoscenza della vinificazione da parte del poeta venosino non deve poi sorprendere visto che già al suo tempo di quel succo d’uva tanto caro agli dei si faceva già largo consumo durante i conviti, momenti di vita sociale a Roma. Orazio infatti ci informa sul modo di vestirsi, in particolare le calzature, possibilmente non usate (Satire, II, 8) al rituale preciso che il convito deve seguire nel suo svolgimento, fatto rispettare dal rex convivii o magister o arbiter bibendi, al modo di comportarsi, per esempio mai rifiutando il vino offerto dal padrone di casa (Epistole, I, 18), mai occupando, se di rango inferiore, i posti riservati agli ospiti illustri, mai ubriacandosi per non esagerare nel dialogo e per apprezzare i cibi offerti (Satire, II,8).

Ma Orazio, non è un caso, è nato nella terra dell’Aglianico, il cui vitigno, di origine ellenica già ammantava i versanti del Vulture dalle sette cime: a noi piace immaginarlo nella sua casa venosina, intento ad offrire ai suoi ospiti una inebriante coppa di vino rosso in un clima semplice e accogliente come lui stesso ci dice (Epistole, I, 5) e come il turista può sperimentare in una sosta da queste parti.