Fulvio Pierangelini 7 Maggio 2010 – Posted in: FOOD

pierangeliniCome si può iniziare un capitolo su Fulvio Piarangelini? Con dei punti di sospensione, protetti dall’intero arsenale di parentesi come nelle equazioni.

Tutto quello che ho letto e sentito sul personaggio è caratteriale, ma non nel senso che lui ha un brutto carattere, piuttosto che gli inviati, mandati a raccontarlo, hanno fatto nel novanta per cento dei casi un resoconto caratteriale. Si sono espressi, partendo da quel segno complicato, estremizzando, al massimo aggiungendo altri segni (gusti, tipo di abbigliamento, aneddoti, rapporti con la famiglia e l’amministrazione locale…) uno sforzo che incornicia continuamente il dilemma vero o presunto.

Proverei, quindi, a togliere un po’ e contemporaneamente a spostare nell’empireo del paradosso l’inutile spiegazione. Perché inutile, perché il successo di Pierangelini è affascinante e quindi misterioso nelle sue cause e imprevedibile nei suoi sviluppi.

La mamma, donna di imponente dolcezza, si faceva accompagnare al mercato coperto di via Sabotino tra via Montesanto e viale Angelico. Siamo al quartiere Prati, quartiere della piccola e media borghesia, con una doppia impronta marziale e bucolica, che ancora qualche decennio fa era attraversato all’alba da greggi di pecore. Quartiere dove la geometria dei viali ha un piglio sabaudo, mitigato da cipressi, lauri e lecci, generosissimi di ghiande, che occupano i giardinetti al centro della carreggiata.

Le stigmate del quartiere sono importanti a Roma, distinguono i romani tra loro. Che aria tira, quindi, da queste parti? Per chi è nato negli anni Cinquanta, un’orgogliosa insofferenza o addirittura una fronda intellettuale. Quel tipo di arrabbiatura ideale che non realizza rivoluzioni, ma che pratica l’antidoto dell’indignazione.

Ci si avvelena ogni giorno un po’ per arrivare lucidi alla meta successiva. Nanni Moretti, indigeno di Prati, che dice, imbufalito, che le “parole sono importanti” potrebbe esserne un esempio. Da dove nasce questa indignazione, a comando? Prima ancora di diventare la ciambella dei benpensanti è l’arma assoluta di chi osserva con un’immedesimazione quasi totale.

I caratteri in lenta formazione e che vengono sbrigativamente definiti timidi, riversano un’attenzione speciale su quello che li circonda, restando abbagliati a volte e, più spesso, ottenendo delle disillusioni. Essere interessati, curiosi, senza precisi, predeterminati, interessi, fa circolare una libido immensa.

Il mondo si rivela a questi osservatori sentimentali con una trama complicatissima e improvvisi lampi di luce. E in fondo ad un lungo esercizio di silenzio, tra pause e accelerazioni, deflagra, a volte, una gioia quasi insopportabile, seguita dal suo spietato opposto.

Le passioni, i mestieri abbozzati e intrapresi da Pierangelini, studente di elettronica e laureato in scienze politiche (collezionista di autografi davanti agli studi di via Teulada, karateka, bagnino, aspirante attore di cinema e di teatro, velista, diplomatico…) soffrono tutti di quella imbarazzante carica di conflittuale protagonismo. Essere qui, là, secondo la spinta centripeta della vita e, contemporaneamente, ridurre tutto alla propria economia, frullando ciò che si libra allo stato gassoso e raggrumando frammenti granitici.

Se non ci siamo sbagliati troppo, questo genere di marinaio è sbattuto tra due venti impetuosi: la ricerca della semplicità dei semplici (intesi come persone) e l’azzardo della scena. Da una parte, la profondità delle idee, depurate da ogni tipo di convenzione, dall’altra, il finzione, i poteri della parola, magnificata dal silenzio, perché l’arte spiega la vita altrettanto bene degli esempi concreti, dell’esperienza. Anzi se non si dispone di una cosmologia accettabile si rischia, semplicemente, di seguire la corrente.

Il punto di sutura che Fulvio ha trovato è la cucina, il cucire necessità e desideri. Offrire, attraverso il proprio lavoro, quel po’ di autorità e dignità che serve a competere nel mondo, a sopportarlo, senza farsi traviare dalla stupidità e dall’arroganza. Altrimenti non resta che indignarsi e, poi, riprovare. In cucina, prima della rivoluzione copernicana, si incontrava spesso un’umanità eccentrica.

Repubbliche conventuali, la cui autosufficienza aveva qualcosa di utopico, anarcoide. Per quei personaggi taciturni, medievali, viventi per il proprio lavoro, capaci di trasfondere il massimo della considerazione in ogni gesto senza voglia e speranza di ribalta, Pierangelini coltiva un rispetto cameratesco.

La stessa sensazione di essere liberi che ritrova quando, nel suo ristorante, si affaccia quel tipo di aristocratico che: «si siede a tavola per il piacere e non per giudicare». Un dettaglio che ti scaraventa, immediatamente, nella scena che avevi pregustato da sempre: il momento conviviale dove le differenze reali e fittizie svaniscono in nome della serietà e innocenza, germi incoerenti del bello come del buono.

In un’epoca dove il termine professionista è diventato un sintomo di successo, per cui basta dirsi o pensarsi professionale (nel lavoro, nella politica, nell’amore, negli sport, nel raggiro, in guerra, in cucina…) che si acquista il diritto di replica. Un posto in platea, vicini, vicini allo spettacolo.

Ormai, i professionisti e gli aspiranti tali, abbondano come una volta si diceva dei furbi. Se non sei professionista non diventi nessuno, se non ti fai furbo resti un dilettante. Il professionismo è fama e, quindi, soldi.

Di più, non si tratta solo del predominio dichiarato della tecnica, ma del fatto che la parola professionista ne ha spodestata un’altra, eclissandola. Raro sentir dire che tale o talaltro sono persone serie. Concetto troppo modesto, passato di moda.

E allora? Allora a cosa potrebbe assomigliare un esperto, un professionista privo di serietà? A un furbo. Il professionismo, chiamato a fare centro anche al buio, elimina da sé per manifesta incompatibilità ogni aspetto drammatico della vita: i sensi, la scoperta solitaria, l’orgoglio, la paura, i sentimenti, altrettanti intralci al raggiungimento dell’obiettivo, unico vero imperativo.

L’ombra, il come, il tono, il raccoglimento, l’intuizione e il conseguente stupore – lato lunare, femminile dell’esistenza – resta compito e risorsa di poche persone, di chi si indigna per tenerezza.

E il paradosso è tutto qui, l’innocenza dei burberi, la tenerezza tirannica che tiene in ceppi l’enigma di San Vincenzo. Chi la possiede, formula continue richieste, ha fame e sete arretrate, imperiose. Non capisce la distrazione, odia il vincolo della banalità, il gesto riscaldato, ripetitivo. Soffre per la parola sbagliata, l’originalità degradata, il mancato apprezzamento.

Sicuramente, il mantenersi innocenti, in una zona protetta del proprio io, aumenta a dismisura diottrie e tatto; fa vedere e sentire oltre misura. Preparando, ad esempio, cibi che, come una volta i banchi in chiesa, sono riservati solo a certe persone.

Unica differenza è che i predestinati non sono tali per censo, ma per affetto o riconoscenza.

È chiaro che, in questo contesto, i piatti di Fulvio Pierangelini non sono ricette, ma composizioni che hanno un’ora di nascita, un loro oroscopo. Sono ipertesti che richiedono mandibole leggere.

Dovrebbero, anche per la loro desiderata perfezione, proteggere il suo inventore, invece no, lo espongono al più superfluo dei delitti: il plagio che, come sottolinea Fulvio, non va confuso con la citazione.

Ecco, se i tanti imitatori avessero avuto il buon gusto di premettere la parolina d’àprés avrebbero almeno mostrato rispetto per tenerezza, sorella gemella di indignazione e innocenza.

Due cose ancora: un ricordo e un’invidia.

Ho avuto, per caso, la fortuna di mangiare, con Fulvio e sua moglie Emanuela, nella saletta; una piccola camera di decompressione dove si posano le ceneri del fuoco che divampa accanto.

Era un piatto di pasta di cui per pudore ho cancellato tipo e condimento, salvando solo quell’impressione, un po’onirica, del suo corpo fluttuante. Era raccolta come un gomitolo allungato, un gomitolo giunto alla fine, poco prima di dipanarsi e svanire con l’estremità del filo.

Ho percepito l’idea di una trama che si componeva e scomponeva nel bianco del piatto. Quasi per aria. Provo, invece, invidia, per una sua bellissima metafora che accosta le donne alle grappe. Vorrei poterne discutere a fondo, elencare e comparare, ma sarebbe come chiedergli che condimenti usa.

Nicola Dal Falco