Antonello Colonna 7 Maggio 2010 – Posted in: FOOD

colonnaLabico, trentasei chilometri da Roma. Dopo la porta rossa, un’unica volta abbraccia la sala, avvicina e protegge i commensali. Sembra contenere come le grotte il tepore che sale dal fondo. È il rifugio di chi cerca oracoli, la stanza lunata che riecheggia l’orizzonte celeste, la greppia del verbo incarnato.

Un antro da cui è stata espulsa la paccottiglia del rustico, valorizzando l’aerea ma solida bellezza dell’arco. Arco su cui origina la cupola e vola, in lunga teoria, l’acqua per bere, lavarsi e cucinare.

La campagna romana è prima e dopo Roma, ne prepara e raddoppia la meraviglia: Latium vetus, dove Giano offrì rifugio a Saturno, inaugurando sulla terra un’età pura come l’oro, dove, un re aveva la selva per palazzo, dove nel santuario di Satrico si venerava la luce mattutina…

Dove, soprattutto, a Preneste, sorgeva il tempio della Fortuna Primigenia, un po’ madre (dolce) sorella (saggia) e amante (imprevedibile). Un culto che avvicinava i due corni dell’esistenza: caso e necessità, ricordando che la fortuna irriga la terra come un fiume (Nilo) è sempre lì, ma va acchiappata per i capelli.

Cosa si può liberamente percepire dell’antichità, quando questa ti cozza contro ad ogni passo? Tutti i posti sono gravidi di memorie, ma qui!

La nostalgia per il mondo antico, il suo profumo, scaturisce da una frenesia dell’aria, da un gioco di forze, spesso frivole, che sembra imbrigliare e scuotere l’esistenza. Allora, la percezione più libera è quella che avvicina le cose alla vita, le rende testimoni di una continua modificazione.

A furia di ammirare lo spettacolo si rimane incantati, desiderando di entrare nella corrente e cambiare un poco, quel tanto per sentirsi nuovi cioè antichi, parte di un flusso circolare.

Antonello Colonna, forse, propone in sé un modo classico di stare al mondo dove l’individuo è ancora agorà, polis, animale politico e combattivo, geloso del proprio focolare e curioso dell’ultimo straniero giunto al mercato. Un campagnolo che ha messo le ali ai piedi., solido, fine d’udito e di naso.

E siccome, lo stesso ha, infine, viaggiato e goduto della grande ribalta, si toglie lo sfizio di conservare tutto in un scrigno fatato, di aprire e chiudere la sua credenza, dimostrando che lì sta l’altrove di ogni sogno e realtà.

Ho cercato l’etimologia, scoprendo che nell’accezione di “armadio basso e lungo in cui si ripongono i cibi e le stoviglie” c’entra Venezia e il latino medievale, ma che la coesistenza con gli altri significati: “convinzione”, “fede” e ancor più “stima”, “reputazione”, “fiducia” fosse più intrigante.

Si potrebbe parafrasare che chi ha credenza e un locale di 78 metri quadrati non si perde nel bosco, impara a cercare; che i lupi e la loro ingordigia, accoliti di tutte le mode, vanno trattati come facevano i santi francescani: con religiosa ferocia, trasformandoli in bestie da soma, a maggior gloria dell’unico, vero Padrone.

La credenza, nel senso del mobile, abitua a mettere da parte, a prevedere, lasciando liberi di improvvisare, di adattare. Sta a metà strada tra la tradizione, l’ancoraggio delle origini e le capacità personali. Mentre tieni d’occhio quella, metti alla prova queste.

Testardo fino a mostrarsi preveggente quando non demorde, ribadendo che va incoraggiata la lussuria, nonostante la cucina del momento imponga flan e piatti destrutturati o annunci la morte della pasta.

Abile e arruolato allorché si impegna a lavorare sodo in televisione, per i Mondiali di calcio del 1990, sugli Eurostar Roma-Milano, i voli Alitalia diretti a New York, per una convention che riunisce cinquemila invitati e per Palazzo Chigi.

Spietato con arguzia, quando al raviolo aperto contrappone i ravioli chiusi al cioccolato e utilizza, ma per fettuccine e maltagliati, l’idea altrui di tirare la pasta con le erbette. Candidamente provocatorio nel servire, ad un meeting di chef, ciriola e porchetta.

È lungo questa linea del carattere che risaltano certe affermazioni, acri come un puntiglio. Penso al rifiuto della parola arte, riferita alla cucina, troppo alta e scontata per un mestiere che si può intraprendere senza veri diplomi o al desiderio, sottilmente aristocratico, di farsi chiamare, con vero sprezzo del pericolo e delle false onorificenze, ristoratore… termine che deriva da un verbo, è azione. Anche il continuo riferimento alla testa, alla cucina come prodotto dell’intelligenza, è un modo per farsi giudice, cacciatore e non cacciato. La prova sono i suoi stessi menù che non hanno una partenza e un arrivo scontati. Puoi anche iniziare dal dessert e risalire fino al primo. Sono una rete di sentieri, segnati sul fondo Colonna.

Ma l’aspetto che più avvince, dove cogli la prontezza di spirito, il gesto dell’uomo, ha a che fare con l’idea di inclusione. Vezzeggia sia l’uso sia l’essenza stessa del cucchiaio, forma che al tempo stesso taglia e raccoglie, restituendo direttamente in bocca l’unità del piatto, la concentrazione di profumi e sapori. Si potrebbe addirittura dire che attraverso l’immagine del cucchiaio viene evocato l’abbandono, l’immanenza, la malìa, una via diretta alla conoscenza: perché la contemplazione è ignoranza, come dicono i mistici duri.

La ricerca della pienezza, del boccone totale, si manifestava già, vent’anni fa, nei cioccolatini ai fiori e alle erbe regine, nella certosina calibratura dell’involucro e del ripieno: nove grammi di guscio e sei di gelatina profumata. E la si ritrova, esaltata, nello sformato di verza, caciotta e lardo rosa, l’anti-antipasto, sempre in carta insieme al millefoglie, creatura vergine, rotta ad ogni complimento.

Scopo di Colonna è: «fare una cucina moderna che restituisca l’integrità dei sapori». Non la semplice interezza, ma proprio l’integrità, quasi che avessero rischiato, nei meandri della modernità, di parcellizzarsi. Perciò, il ristoratore privilegia la pasta ripiena, un modo di liberare l’idea attraverso il gusto, in un passaggio diretto dal piatto al palato. Così è per il raviolo di trippa che ha il pecorino dove ci si aspetterebbe la trippa, cioè dentro.

Un ricamo in punta di coltello, uno sberleffo che serve a declamare il primo, onnicomprensivo, comandamento di Antonello: si tradisce solo per amore. Da una parte la ricetta tradizionale della trippa e dall’altra, la messa a punto di un piatto che ha l’effetto di un «tradimento-non tradimento». Il segreto sta naturalmente nel diverso dosaggio degli ingredienti e in quello spostamento fuori che permette al sapore ancestrale di ricomporsi, di mantenersi in equilibrio.

Nicola Dal Falco