Aimo Moroni 12 Maggio 2010 – Posted in: FOOD

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Il luogo di Aimo e Nadia è un’insegna che toscaneggia. Innanzitutto, per luogo si intende “una porzione di spazio idealmente e materialmente delimitata”. Dizionario etimologico alla mano, la parola compare per la prima volta in questa grafia con Guittone d’Arezzo (1294) e l’elenco delle espressioni che la comprendono ha utilizzatori di rango: aver luogo (avvenire, accadere, XIII secolo, Rinaldo D’Aquino, Brunetto Latini) esserci luogo (esserci motivo, possibilità, 1348-53 Boccaccio) dar luogo (cedere il posto, 1374, Petrarca)…

Anche la strada, periferia nobile, dove si affaccia il ristorante, è un luogo riconoscibile dal punto di vista urbano. Le misure, gli edifici, il vuoto sembrano inversamente proporzionali alla vita e all’attività che si celano all’interno. Una via quasi spoglia nella sua geometria, laboriosa o semplicemente riservata: milanese.

Luogo anche la sala che si allunga sotto la volta insonorizzata, lasciando al centro una corsia dove navigano lo chef e il servizio. E luogo il tipo di cucina di Aimo e Nadia.

Per chiarire il lungo preambolo dobbiamo aggiungere il tempo con il suo misterioso andirivieni che copre e scopre i ricordi.

«Ho sessant’anni in cucina e qualcuno di più all’anagrafe – spiega Aimo – da giovanissimo il nostro nume era Nino Vergese. Un cuoco che aveva lavorato nelle case della nobiltà piemontese e in due ristoranti La Santa di Genova e il San Domenico di Imola. Il massimo allora, eppure quanti lo ricordano? Forse, il nostro destino è quello di vivere una breve stagione e scomparire».

«Però, l’età ha un pregio, mi permette di riconoscere i sapori. Ricorda il gusto delle cose, come venivano fatte in campagna, a Pescia, a casa dei miei nonni. Nulla di sentimentale, anzi, un vero e proprio privilegio, una scuola del palato che non dimentichi più: il coniglio nel gabbione, i piccioni accanto alla finestra, le pollastrelle di primo canto, le uova nel corbello…»

«Oggi, molto è cambiato con la globalizzazione. Quando sono arrivato a Milano, nel dopoguerra, come tanti per sopravvivere, ho trovato una cucina semplice. Quella dei pulpett, della busecca, la trippa, dei nervetti caldi di vitello, del minestrone con i borlotti di Vigevano, generosa, adottiva».

«Rispetto ad un tempo, alle vecchie osterie e trattorie dove si chiacchierava in compagnia di Luigi Veronelli e Gianni Brera, l’aspettativa attuale s’aggrappa ad altre certezze: l’ubicazione, l’arredo, vista la facilità con cui gli architetti fanno miracoli, l’evento, magari una saletta per i sigari. Argomenti su cui Aimo e Nadia non sono competitivi».

Parole oneste, pesate, dette in una lingua paziente, modulata sui toni bassi. Con un che di ipnotico, di claustrale.

Capisco meglio, adesso, quando mi parla della spesa. “Fare la spesa” che da necessità si trasforma in Regola, con la maiuscola. L’appuntamento errabondo con il meglio delle materie prime italiane rappresenta per Aimo il tema del ritorno, la liberazione verso i propri ricordi e i traguardi presenti.

«Parto per il mercato alle sei, quasi tutte le mattine, scegliendo al primo sguardo. E, oggi, purtroppo ho perso un fornitore di nocciole piemontesi». Giusto rammarico se si condivide fino in fondo l’assunto che «la cucina italiana non è nata a corte come quella francese», ma trova la propria ricchezza in una sterminata dispensa regionale.

Allora, il pomodoro col pane che ho sotto agli occhi, macchiato di un’indescrivibile punta di rosso, è esso stesso un luogo dove “è avvenuto e avviene qualcosa”, l’indirizzo di un sapore, la rubrica (rubor = rosso) dell’orto, souvenir d’antan e nuova promessa.

La magia proposta altro non è che un pranzo che serva la memoria, sorprendente per chi, nolente o volente, se la ritrova corta.

«Non ha senso disputare – tuona sommesso Aimo – tra piatto povero o ricco, ma, semmai, su cosa distingue un buon piatto. Io faccio una cucina italiana, classica, utilizzando solo prodotti di nicchia».

Intanto, sul tavolo, ho sempre pieno un piattino d’olio, un piccolo sole che occhieggia accanto al pane di farro. Premiato al Vinitaly, è una spremitura in purezza di nocellara del Belice. Come per la fondina con pomodoro e pane, anche questo piattino d’olio cela la schiettezza del messaggio, condimento che «arricchisce tutto, non copre mai e fa dormire bene».

Un assaggio ancora, chiedo i famosi spaghetti con cipollotto, peperoncino e basilico, nati per fare qualcosa con l’olio crudo, superando il punto di fumo dell’aglio e, in fondo, ribadendo la difficoltà che i piatti semplici propongono costantemente. Tutto quello che mi viene in mente è superato da una sensazione perdurante, quasi tattile, di levigatezza.

Non ho conosciuto Nadia Moroni, di cui si percepisce tutta la volontà. L’«e» di Aimo e Nadia è già una dichiarazione di totale, fedele condivisione, ma vorrei sottolineare cosa Stefania dice dei genitori.

«Per tantissimi anni, l’uno è stato lo specchio dell’altro in cucina. Il primo e ultimo giudice. Insieme hanno elaborato un metodo che non riconosce la mano del maestro. Così rigoroso e libero che gli allievi, abbracciandolo, ripartono da zero, in grado, se ne sono capaci, di esprimere la propria personalità».

«La nostra cucina – è sempre Stefania a fare la sintesi – cerca l’equilibrio tra il sapore assoluto e la storia del gusto. La prospettiva, implicita nel passato, nelle esperienze che ci precedono, rappresenta una risorsa. Molti, invece, tendono a fare dei piatti votati al presente, alla contemporaneità. Adrià ne è il campione riconosciuto.

«Potremmo anche dire che ci sono due strade, destinate a correre parallele. Una che antepone il piatto alla materia prima e considera questa un mezzo. L’altra, quella per esempio di Aimo e Nadia, invertendo l’ordine delle preferenze, interpreta la materia come il fine. Così, i piatti tendono a raccontarsi da sé. Sono luoghi in cui è accaduto o accade qualcosa».

Per concludere, bisogna concedere più di un’occhiata ai grandi quadri che pendono in sala. Frutto della stretta collaborazione esistente con Paolo Ferrari, ricercatore, analista, pittore, musicista, fondatore del Centro Studi Assenza. Termine sinistro, ma che, al contrario, “dà luogo” al necessario distacco per capire se stessi e la storia, offrendo in cambio la libertà del gesto.