Gualtiero Marchesi 29 Aprile 2010 – Posted in: FOOD

Gualtiero MarchesiConosco da un po’ Gualtiero, dal giorno dell’inaugurazione dell’Albereta, il Relais & Chateaux di Erbusco, in Franciacorta, che ospita il ristorante e rivederlo, permette, ogni volta, di allineare certi elementi, sempre vicini, direi mescolati alla sua storia.

Innanzitutto la musica classica e più in generale l’arte. Così vicine da far parte della propria vita privata. Attraverso la moglie, Antonietta, cui appartiene il mondo concertistico, ereditato dalla primogenita Simona, e attraverso Paola, la seconda figlia, che è invece scultrice.

Con quest’ultima, Marchesi vive un rapporto di collaborazione e di contaminazione:

La ricerca formale che caratterizza i piatti dell’uno rimbalza nelle opere dell’altra, dove la materia preme per ritrovare un linguaggio essenziale.

La strada comune è quella del simbolo, attraverso il gioco delle linee e la forza del colore. Fatte le debite differenze di età, padre e figlia inseguono un ritmo dove la vista e il tatto sono fondamentali e l’effetto finale esprime un sentimento elegiaco, musicale.

Carattere e malinconia, sintesi e languore.

Gualtiero usa spesso la metafora delle sette note. Un piatto assomiglia ad una partitura. «Se cerchiamo l’armonia, la leggerezza è per cacciare indietro quella sensazione di tristezza triviale o di volubile conformismo. Il desiderio di astrazione e di purezza ci guida verso la semplicità.

I piatti devono stimolare la digestione, l’assimilazione dei sapori, eccitando i sensi senza mai stancarli. Ho sempre paragonato l’arte di cucinare alla musica che ti avvolge e penetra senza tregua, riaffiorando in maniera imprevedibile.

«Forme e colori simili a note, distinte e fuse nella melodia della ricetta. A fare la differenza è il tono con cui viene eseguito il pezzo. La scelta spetta al maestro che dirige. In altri termini, qualsiasi prodotto anche non costoso può vivere il suo attimo di gloria se c’è il tocco»!

«È stato osservando un cuoco giapponese mentre scomponeva i piatti che ho perso ogni timore reverenziale – ricorda Gualtiero – a sua libertà mi ha conquistato e ho iniziato a smontare le ricette».

L’analisi e la sintesi sono indispensabili l’una all’altra e ad ogni processo di conoscenza. Prese da sole, però, possono anche indicare due mondi. Mentre l’analisi è la via che passa ad oriente, la sintesi dimora volentieri a occidente.

La distinzione non serve a stabilire una supremazia ma a sottolineare che l’orientale si abbandona al flusso dell’esperienza. I dettagli sono per lui tutti importanti, tutti solenni.

Viceversa, l’occidentale cerca forza nella sintesi, nella formula che metta in chiaro il punto di vista.

Gualtiero Marchesi ha rubato un po’ di analisi al mondo orientale per vedere dentro, contemplando e dialogando con gli elementi che compongono il piatto.

Ha cercato di capirli anziché di usarli e basta. Si è dedicato all’arte della manutenzione come nel caso delle lasagne, portando a regime il motore della vecchia ricetta.

«Per alleggerire le lasagne ho allargato i fogli di pasta sul piatto anziché sovrapporli, spargendo sopra il ragù e la bechamelle senza farina, ottenuta grazie ad una riduzione di brodo e panna.

«Il piatto ha perso l’aspetto e la pesantezza del mattone. L’operazione non ha snaturato le lasagne, le ha solo rinnovate e il sapore – ciò che conta veramente – si è affinato».

Lo stesso discorso vale per la cotoletta alla milanese, rimodernata, servita con l’osso e divisa

in quattro o cinque bocconi per salvare il piacere croccante della panatura.

Tagliandola direttamente sul piatto, invece, si liberano gli umori e finirebbe col bagnarsi.

Per i più golosi, Marchesi ne ha lasciato un pezzo attaccato all’osso.

«L’esempio delle lasagne e della cotoletta porta a una semplice considerazione: la cucina ha perso il suo lato maschile, avvicinandosi sempre più all’universo complementare; si è in altre parole ingentilita. La risposta è nascosta in una frase che mi disse una signora, alzandosi da tavola: «Marchesi, questa cucina si può gustare con l’acqua».

Nel 1977, Marchesi lanciò la Nouvelle Cuisine in Italia e fu una sfida che servì a spazzare via il vecchiume. Erano dei giacobini allora. La battaglia, con intuito strategico, si sviluppava nelle retrovie del nemico, contro l’ancestrale paura della fame.

Chi si avvicinava alla tavola lo faceva per abbuffarsi. Colori, forme, per non dire sapori, si perdevano in un guazzabuglio che, alla fine, rasentava la monotonia.

«Reagimmo a questa nemesi culinaria e coronaria, predicando con i fatti una cucina che si potesse solfeggiare, logica, capace di mettere in fila materie prime e concetti.

Ritrovammo una leggerezza, una leggerezza intellettuale.

«È vero, il radicalismo finisce sempre per diventare chic e l’attesa tra un piatto e l’altro era insostenibile. La fame non veniva placata mai, ma, per così dire, galvanizzata. Tuttavia, le premesse erano giuste e, ancor’oggi, il piatto che amo di più risale a quel periodo. La ricetta prevede sette penne, venti grammi di tartufo nero di Norcia affettato e sette punte di asparagi, tagliate a becco di flauto Non occorre spiegare nulla».

Nel breve elenco di cose si concentrano il rigore assoluto, la voglia di stupire, la sfida portata al parossismo. Alla fonte di tanti mutamenti c’è una voce limpida, cristallina.

È la voce di Auguste Escoffier, vero padre della Nouvelle Cuisine.

«Noi punteremo alla massima semplicità – ammonisce – aumentando però il sapore dei piatti e rendendoli più leggeri…».

Quale affermazione potrebbe suonare più lirica e battagliera?

«In un piatto – sottolinea Marchesi – è sempre l’eccesso di tecnica a sciupare tutto. Maturando, mi sono scaldato, ho messo da parte certe stampelle.

«Le donne e alcuni uomini arrivano prima, perché imboccano la via maestra, non si nascondono alla passione. Un piatto riuscito non è mai perfetto, non deve esserlo. L’emozione richiede movimento, intemperanza, slancio.

«La perfezione che la gente si aspetta, così vicina al rigore della morte, non appartiene al capolavoro. Una volta, ho chiesto al mio amico Calvi quand’è che avrebbe terminato quel ritratto. «Va bene così» – mi rispose. Una parte restava come in ombra ed era – ho capito – la parte infinita».

In giardino, mentre si preparava un temporale di mezza estate, Gualtiero ha ricevuto una grande scatola rossa con i nuovi spaghetti Latini, pegno di una vecchia promessa.

Fare della pasta di qualità non rugosa. L’opposto di quanto si predica da anni.

La trafila di bronzo lascia una superficie che raccoglie il sugo.

A Gualtiero che ragiona in base alla regola del contrasto, capace di stimolare il gusto e la digestione, questo abbraccio non piace.

«Tanti anni fa, un polacco mi tenne sveglio l’intera nottata, spiegandomi la necessità del contrasto, l’orrore per l’uniformità. Parlava, evidentemente, per conoscenza di causa».

Così Carlo Latini glieli ha fatti lisci, sempre utilizzando le trafile di bronzo.

Non poteva che nascere una disquisizione sulla cottura della pasta al dente. Tralasciando i preamboli, la regola dovrebbe essere questa: otto minuti di cottura, tre con il fuoco acceso e cinque a fuoco spento con il coperchio. Risultato: acqua chiara, spaghetto consistente senza risultare duro e più digeribile.

La pasta liscia è solo la prima delle novità che bollono in testa al maestro.

Ci sono, naturalmente, i piatti e i bicchieri. L’ultima soluzione prevede di spostare il girello del piatto, su un lato in basso, in modo da dividere il cibo principale dal contorno che viaggerà ellitticamente come un satellite sul bordo più largo.

Viceversa se è, ad esempio, la caponata il centro ideale della ricetta, il piatto ruota e il girello salirà in alto mentre sul bordo (in basso) si sistemeranno i gamberi.

Per l’acqua, Marchesi, ha due proposte: bicchiere allungato per quella effervescente, bicchiere basso per la naturale. Potrebbe sembrare il colmo dello snobbismo se non fosse la conseguenza di un’altra scelta: «i miei menù degustazione sono, per la loro stessa ragion d’essere, accompagnati da acqua e grissini»

Il primato del cibo sulla recente dittatura del vino si ripropone anche in un’altra decisione. Quelli firmati Marchesi saranno vini che si limitano ad accompagnare le portate. Vini non impegnativi, solo un rosso, Bardolino e un bianco, Ortrugo.

«Nessuno vi impedisce di bere la grande bottiglia, ma questa, a volte, rappresenta una tale scalata che non tutti riescono a compiere»!

Nicola Dal Falco