Filippo La Mantia 27 Aprile 2010 – Posted in: FOOD

Filippo La Mantia“Nulla a prescindere” potrebbe essere il motto in cui si compendia il lavoro di Filippo La Mantia. Mi viene anche in mente la forza dell’imperfetto, il verbo che indica il perdurare di un’azione o, visto che abbiamo di fronte un palermitano, l’affascinante e antiquario presente storico, coniugazione del passato nel presente: Cesare passa il Rubicone e sfida il Senato.

Perché la volontà si trasformi in imperio, è necessario attraversare un piccolo fiume. Al di là è guerra. Verrebbe quasi da dire che tra Cesare e il suo futuro c’è solo quel luccichio d’acqua, modesto rivo di confine.

Ma alla fine, è la portanza dei fatti, la loro potenzialità a decidere: è il passato presente di ognuno che richiede una strategia per avvicinare a sé l’imprevisto, il moto d’acqua che ci circonda. Filippo gli imprevisti se li è cercati o, se preferiamo la prospettiva isolana, sono stati questi a rincorrerlo. Se ci limitiamo ai fatti, dove la scelta è più arbitraria, potremmo risalire alla seconda metà degli anni Settanta, quando, una sera d’estate, Filippo trova la propria automobile occupata da una ragazza che sta male, che si fa male nel modo allora più comune: l’eroina.

Per stupore, per tenerezza e per rabbia, quel giovanotto non riesce a fregarsene e comincia una lotta a fianco della ragazza. Una lotta senza esclusione di colpi contro la “robba” e chi gliela fornisce.

Si dà il caso che la ragazza sia figlia della più importante fotografa palermitana di cronaca. E si dà ancora il caso che, come forma di riconoscenza, la madre proponga a Filippo di curiosare nel suo studio, avvicinandosi al mestiere di fotoreporter.

Così, dal 1978 al 1986, la fotografia arriva a sovrapporsi tirannicamente alla vita quotidiana, compresa la gloria di partecipare al premio Pulitzer nel 1982, di pubblicare su Time, Life e Stern.

Seguire la cronaca non è mai una passeggiata, e farlo a Palermo, in quegli anni, ancora di meno. Poi, come in una facile sceneggiatura, il destino di uno spettatore fedele cambia, su due piedi, in quello di comprimario del dramma.

«Improvvisamente, visto che ero l’ultimo affittuario di un appartamento – racconta – il procuratore di allora, Alberto Di Pisa, il cosiddetto corvo di Palermo, mi fa arrestare con l’accusa di essere il basista del delitto Cassarà.

«E siccome uno+uno, a volte, fa anche quattro, mi faccio sei mesi e venti giorni di carcere. Sarà Falcone a capire che non c’entravo niente. Il peggio, però, viene dopo, quando sei fuori e resti marchiato, privo, ad esempio, del passaporto per quattordici anni. È allora che rivaluti il concetto di famiglia».

C’è un dettaglio triste e lirico. Filippo arriva a sublimare il ricordo del carcere se pensa al cibo che, con grandi sacrifici, i parenti riescono a far entrare. Il pomodoro, il basilico sono guardati e lustrati con gli occhi della pena, quasi venerati. Lì, in cella, profumi, forme, colori hanno veste quasi angelica; intercedono con i ricordi personali, con la vera vita.

Naturalmente, la cucina e la fotografia non sono panorami intercambiabili, ma, in questo caso, colgono una particolare disposizione d’animo, quel misto di generosità e orgoglio che fanno il carattere del personaggio.

A ripensarci le suggestioni c’erano già tutte. Lo stesso La Mantia dice di fare oggi quello che faceva a Palermo, o meglio ciò che vedeva a casa e tutto intorno.

In particolare, ti racconta di suo padre che il sabato e la domenica cucinava per la famiglia, andando, personalmente, a fare la spesa. Gesto perfetto, concepito come un dono principesco, irrifiutabile.

O della madre che ha un negozio di spezie in via dei Nebrodi, 65 h. Una stanza dei profumi dove, ancor’oggi, fuggire e pensare.

«Lei – mi dice, con una devozione d’altri tempi – insegna pasticceria alle donne palermitane. Un lavoro di tale purezza…»!

Avete presente San Vito Lo Capo? Il paese che finisce in bocca al mare, tagliato dallo stradone come da una scia? È, qui, che Filippo apre un cous-cous bar, si inventa dei pesti e, fatalmente, trova quella combinazione di sapori che serve da base alla sua cucina. La genesi pare casuale – aggiungendo meccanicamente nel frullatore – ma non, allora, l’incoraggiamento di Enzo Vizzari.

La formula prevede polpa di agrumi, finocchietto, basilico e pinoli. Un sipario di profumi, quasi che la sintesi ottenuta volesse conservare per sempre l’aria di un ricordo, il bacio di un luogo.

Se non accettiamo le categorie del dramma, la tensione degli opposti, non entriamo nel gioco e possiamo solo sorridere dell’insofferenza nei confronti dell’aglio e della cipolla. Per Filippo è la loro stessa arroganza ad escluderli. A quel fiato di terra che ti segue ovunque, oppone un pesto di polpa di agrumi, finocchietto, basilico e pinoli. Come dire una brezza leggera che conduca verso il largo dove un vulcano che erutta sembra una festa di botti.

Oggi, a Roma, il ristorante di Filippo La Mantia è dentro il triangolo scaleno che ha per lati Montecitorio, la piazza del Pantheon e il Senato. Chi lo ha fatto l’ha cercato a lungo, affidando il progetto ai gemelli Giammetta, allievi di Massimiliano Fuksas.

Si chiama Trattoria e credo che per tutti la prima impressione sia la stessa: quella di non immaginare affatto lo spazio nascosto in cima alle scale. Uno spazio dove prevale la pianta sull’ornato, l’idea architettonica sui fronzoli e quando arriva il piatto il resto si fa da parte.

Nel frattempo, la scena è trasparente e la cucina con il suo viavai appare tutta da dietro un vetro inclinato. Ci sono gli oggetti e i macchinari, i cavi e le spie illuminate, ma anche la foto di una piazza della Vucciria e un’agenda di Suor Germana sopra uno scaffale alto.

Quella foto non sarà troppo casuale. Gli uomini, immersi nelle luci al neon, sono presi nei pensieri di un’attesa. C’è immondizia per strada e ogni finestra ha il suo stile (legno, anodizzato, scuri, persiane…). Nessuno dorme ancora e sola risplende come un palco di teatro la verandina del ristorante Shangai. Basterebbe guardare quelle sedie, strette a mezz’aria per non sentirsi più a Roma.

Quello che assaggio mi porta ogni volta nella notte di Palermo. Il macco di fave e la caponata (debellati soffritto, sedano e cipolla) sono un velo, il ragout di capretto è quello di un re-pastore senza più pregiudizi e il gelo di arancia scalda il cuore come un seno.

Nicola Dal Falco