Davide Oldani 29 Aprile 2010 – Posted in: FOOD

Davide OldaniQuando qualcuno di quelli ben informati vi parlerà del ristorante D’O userà un paradosso: è una trattoria di lusso… Lo dice, perché i prezzi non sono alti (da 11 euro e 50) al contrario della qualità.

Ma se per voi la trattoria rappresenta solo qualcosa di onesto e magari un po’ folcloristico siete fuori strada. Davide Oldani è un perfezionista. Il buon prezzo non è la conseguenza di un’approssimazione per difetto, ma per eccesso: eccesso di materie prime, eccesso di tecnica, eccesso di pazienza, eccesso anche d’amore.

Risultato: un ristorante sempre pieno dove si parlano quattro lingue.

Un ristorante che ha le dimensioni di una trattoria, con dieci tavoli, regolati da un servizio che rispetta i minuti di attesa. Fin dall’insegna, due lettere unite dall’apostrofo, appare evidente la scelta di non moltiplicare i segni.

Dentro, sala e cucina si toccano, i quadri pendono per non apparire, ma alla terza occhiata ti viene voglia di saperne di più. Cinque sono ingrandimenti di lame, lame di coltello e tre gli schizzi tecnici di uno chef giapponese che spiegano alcuni piatti di Oldani, realizzati durante una cena all’Akasaka Tokyu Hotel.

Sul primo soggetto, il coltello, non c’è molto da aggiungere se non che fu anche lo strumento sacerdotale. Tagliare, sacrificare, equivale, simbolicamente, a nutrire.

I disegni colorati dello chef hanno, invece, un profumo di scuola, di comunità, ispirati dalla voglia di capire e farsi capire.

Siamo vicinissimi a Milano, ad appena dieci chilometri, e si avverte l’influenza della città. Spirito concreto, fantasioso che, nei tipi migliori, trova una prospettiva morale.

Torniamo, quindi, al prezzo che, alla fine, regola la relazione umana e commerciale tra l’ospite e il cuoco. Oldani è e si sente milanese.

Ha sempre vissuto a Cornaredo, dove è tornato dopo aver lavorato fuori dai 18 ai 32 anni: a Milano e a Erbusco con Gualtiero Marchesi, a Parigi, a Montecarlo, a San Francisco, a Tokio. Accanto a Ducasse e Albert Roux.

«Il nostro stile è la semplicità, dai piatti che disegno io stesso all’ambiente, al rapporto con le persone. In un locale si può andare per mangiare, per sfamarsi, per stare in compagnia. A chi entra do il cuore.

«Offro e pretendo rispetto. Se qualcosa non va si rifà, si spiega e, al massimo, non si paga. Anch’io sbaglio. Il vantaggio di fare lo chef sta nel conoscere gente d’ogni tipo, imparando qualcosa tutti i giorni».

«Io seguo le stagioni, sono traviato dai pomodori come dai cavoli. Il vero problema è di lasciar trasparire dai piatti sia la mano sia, soprattutto, l’ispirazione.

Per far bene, in questo mestiere, devi aver tatto per il cibo. Basta guardare uno come tocca le verdure per capire se sa cucinare. Quella tenerezza te la ritrovi tutta in bocca».

Segue una regola imperativa?

«Si, usare poco sale e poco zucchero. Guai a rovinare le pietanze, a travestirle. Il gusto ha l’abilità senza pari di auto regolarsi, scegliendo sempre la verità dei sapori, la loro esattezza e potremmo dire la loro storia».

Da dove nasce per Oldani questa cucina del gusto?

«Mi vanto di aver lavorato dieci anni a fianco di Marchesi e di averlo visto cucinare.

Solo una profonda conoscenza della tradizione consente di migliorare, ri-voluzionare i piatti, tornando al loro inizio, al senso che mosse per primo il gusto.

«Come ha sempre ripetuto Gualtiero: sono le piccole cose a fare le grandi differenze. Due minuti e mezzo di cottura in meno e mangi la pasta come vuole la tradizione napoletana. Una corda di violino che ti obbliga a masticare e masticando gusti. Aggiungi i colori, i sapori, la consistenza ed ecco che il pranzo si trasforma in conoscenza.

«Obiettivo raggiungibile se alla passione aggiungi la scelta estetico-funzionale di non sporcare il piatto, di raccogliere l’occhio e il cibo, in modo che cervello e palato siano guidati prima ancora che inizi l’assaggio. Perciò disegno personalmente piatti e scodelle come la fondina inclinata, con i bordi allargati!

«Attenzione, però, la cucina inventiva sopravvive solo nella continuità. Bisogna fare e pensare come la goccia che cade e ricade nello stesso punto. Per questo il mio braccio destro si chiama Ide Matsumoto.

Insieme coltiviamo la perseveranza; crediamo, cioè, che per quanto sia bello inventare cose sempre nuove, queste valgano la metà se le assaggiano in pochi.

Con Ide Matsumoto, l’intesa coinvolge più piani. È una sorta di meticciato culturale e di purezza di pensiero.

«I giapponesi sanno sfiorare il cibo, comunicano con esso e soprattutto misurano la cottura. Se dovessi dar loro un consiglio, li inviterei ad adottare alcuni ingredienti esotici.

E proprio pensando a questo e allo shabu shabu – dove la carne di manzo, tagliata sottilissima, viene cotta per qualche secondo in una ciotola d’acqua bollente, in cui navigano dei pezzetti di verdura – che ho scelto lo stesso procedimento, applicandolo al fegato alla veneta. Fegato, fonduta di cipolle e un pentolino d’acqua bollente».

A questo punto, è naturale che la conversazione proponga una sintesi, indicando tre piatti del menù che facciano da specchio a quanto è stato detto finora.

1 – Il principato del gusto: ovvero la cipolla caramellata che in piena estate diventa la melanzana, dove Oldani dice di aver trovato l’equilibrio dei contrasti, l’accordo musicale e pittorico.

2 – L’esorcismo della modernità che, tradotto, significa innovare il gusto, abbattendo i grassi. Pulizia dentro e fuori, la ricerca del piacere rimanendo equidistanti dal vizio. Parliamo di pane, pepe nero, marsala, e riso mantecato.

3 – La lingua arrostita dove, appunto, l’arrostitura, l’abbandono alla fiamma, rappresenta regole e posta del gioco. Anziché bollirla, come tradizione, giocando sulla morbidezza, Oldani la fa arrosto, maritandola ai pomodori e scoprendone il gusto. Un’operazione che svela l’intima natura della lingua, quando si parla per dire e non solo per accarezzare.

Ho capito che Davide Oldani si diverte quando è serio, che s’illumina per ogni scintilla di intelligenza. Verrebbe quasi da dire che è l’anti ruffiano per eccellenza. Non ti vuole piacere, quello che ha da dire, esce subito, prima dei malintesi o delle provocazioni. Mi confessa che, spesso, per non esplodere, si allontana respirando a fondo una, due, tre volte. La famiglia è più di una bussola. È la mappa sopra cui tracciare il punto di partenza e la probabile rotta. Poi, c’è la musica, dove certe parole acquistano la giusta vibrazione. Strofe di canzoni, tipo questa di Ligabue: il cielo è vuoto/il cielo è pieno…

Mi piace immaginarmelo, la domenica mattina, quando esce presto per incontrare il silenzio a Milano. Per entrare al bar Biffi di corso Magenta, ordinare un cornetto così e così e leggersi in santa pace il giornale, sorseggiando il cappuccino. Quindi, se ne torna a Cornaredo, un posto di pianura dove si dice che i milanesi inviassero vacche e buoi da macellare, chiedendo come ricevuta le corna. Percorrendo una strada che, prima di entrare a San Pietro all’Olmo attraversa un paesaggio confuso, tra campi di mais, villette, store e cavalcavia. Né del tutto urbano, né ancora campestre. Un caos liquido, dove come su un letto di lava si va raggrumando il presente.

Nicola Dal Falco