Claudio Sadler 26 Aprile 2010 – Posted in: FOOD

Claudi SadlerÈ bello, a volte, farsi portare in giro da un cognome, immaginare Paesi e incroci di razze, vedere se qualcosa trapela del viaggio intrapreso dal suo legittimo proprietario. Nei confronti di uno chef la curiosità è anche più forte, perché il cibo dà voce a un paesaggio vero o interiore; è patria di sapori, di odori quanto di ricordi e di idee. Sadler, dunque, un cognome di origine inglese e ascendenze trentine, con l’aggiunta da parte materna di sangue mantovano.

Terre di grandi imperi, britannico e austro-ungarico, marittimo l’uno, continentale l’altro dove spiccava e ancora resiste una certa idea dell’umana felicità. Idea elevata a sistema, pratica, che, pur nel rispetto della persona, pone l’accento sul corpo sociale, sulla coesione, raggiungibile sottomettendosi, liberamente, al vincolo dell’interesse generale. Luoghi in cui prevale l’intesa sull’individualismo, la ricerca di un metodo sull’improvvisazione. Anche la genialità, quando si manifesta, ha un passo diverso, ginnico.

Questa particolare disposizione d’animo che definiremo misurata e determinatissima, diligente fino alla caparbietà, di un’ambizione rigorosa e senza limiti, si incrocia con la personalità di Claudio Sadler.
Potenziata addirittura dalla confessata attrazione per l’Alto Adige che rappresenta, forse, una sorta di imago mundi su misura. Certo, vale il senso dell’ordine, l’attaccamento alla natura, tutta l’audacia e la riservatezza che ne conseguono, ma soprattutto un bisogno di chiarezza di fronte a se stessi e agli altri. Come tradurre questo richiamo alla franchezza, al confronto diretto? Dicono che sia l’opposto del tipo passionale, distaccato ed esigente. Non considera il proprio lavoro una missione, anche se ammette che gli dedica il novanta per cento del proprio tempo. Tiene la professione lontana dal divismo, affrontando gli impegni «senza estasi né drammi».

«Quello che faccio l’ho scelto tanti anni fa, perseguendo un progetto ambizioso dove emergesse una cucina in evoluzione, fuori dai clichè, con un’impronta personale, riconoscibile. «Ci sono riuscito, perché ho avuto il tempo di imparare, senza dover cercare, poi, sui libri quando di tempo non ne hai più. Un arricchimento progressivo che insieme alle conoscenze sviluppa a mano a mano il tocco che farà la differenza, il tono a cui arriva quel cantante e non l’altro.

«Mi ha aiutato molto l’insegnamento nelle scuole e i corsi di cucina che organizzo. Si può insegnare solo se resta vivo lo scrupolo e l’entusiasmo dello studente». Alla stessa regola della condivisione corrisponde la recente pubblicazione di quattro libri e, soprattutto, il metodo seguito con i collaboratori. «Lo scopo – precisa – è quello di contare sugli altri, dando mandato, mettendoli in condizione di realizzare le tue ricette. Certi piatti vengono meglio se sono io ad eseguirli, ma, capita anche che siano i miei cuochi a migliorarle». Ripeto sempre che il segreto della ristorazione sta nella costanza del rendimento. Meglio, molto meglio realizzare, regolarmente, un piatto buono al settanta per cento che servirlo perfetto, solo qualche volta. «Da ciò discendono due importanti considerazioni. La prima è che si cucina per dare piacere. Non mi interessa elucubrare, dimostrare quanto si è intelligenti, mettendo sotto esame l’ospite ad ogni portata. La seconda è che l’unico metro di paragone valido è quello che applichi verso te stesso. Non amo perciò la competizione e perdere dignitosamente lascia intatte le proprie potenzialità».

Concetti in cui convergono esperienza e buon senso, espressi per di più senza mai variare il tono della voce. Difficile, allora, non sottolineare il tratto di distinzione, la luce diretta che accompagna i discorsi di Sadler. Quella che entra dalle vetrate, quasi continue, del suo ristorante e si solidifica nel giallo dorato, «imperiale» con cui sono foderate le poltrone: colore maschile, caldo, vibrante. Un indizio che si ripete e che trova eco nel quadretto, appeso ad una parete dell’ufficio: dei cachi, trionfale promessa di ogni inverno, resi come solo la pittura giapponese può renderli, trasfigurati nella loro essenza, in haiku.

«La mia cucina è italiana – spiega Sadler – dal punto di vista geografico e culturale. Attinge all’enorme giacimento che corre, verticalmente, da Vipiteno a Pantelleria, avvicinandomi al nord quando incalza l’autunno e l’ispirazione e al sud per coglierne l’aspetto salutare e la delicatezza celata». «Della tradizione salvo ciò che ha valore e il resto lo modifico. Fare un menù richiede una settimana intera di lavoro. È come scrivere uno spartito, ordinare in senso armonico una gamma di prodotti, riuscendo a non annoiare. Naturalmente, quando nasce la ricetta va poi catalogata, resa intelligibile a tutti». Oltre a Milano, Sadler ha aperto due locali in Giappone dove fa «le stesse cose» e il cambio tra carne chianina e il Kobe più magro o tra il maialino di cinta senese e quello del monte Fuji mantengono inalterato il valore del piatto, mentre in certi casi come per il pesce la freschezza è dieci volte superiore.

«Due tondi in un tondo non dicono niente»! Così, con questa frase allusiva, Sadler racconta la genesi di un piatto che scherza con il commensale, sgranando gli occhi, facendogli il verso». È un dessert, rotolo di sfoglia e pere con gelato alla grappa Williams, che deve il suo aspetto definitivo all’influenza dei collage di Enrico Baj a cui è dedicato. Improvvisamente, affiora il lato dionisiaco e il luogo comune sulla freddezza del nordico si stempera, rivelando, piuttosto, come la cucina educhi al controllo dell’ispirazione. Sia, a tutti gli effetti, un’arte combinatoria, un linguaggio dove offrire asilo alle emozioni.

E qui, nel ristorante di via Troilo, la contiguità con l’arte contemporanea non si manifesta solo in forma di capriccio culinario, ma pende alle pareti, seguendo un calendario semestrale di mostre, scelte in collaborazione con la galleria diretta da Giorgio Marconi. Quali sono gli artisti contemporanei che sente più vicini? «Fontana, Burri e Carol Rama che apprezzo molto». Di lei, potremmo ricordare, a mo’ di conclusione, la sovrapposizione tra libertà e desiderio, così congeniale ai pensieri di uno chef.

Nicola Dal Falco