Una Dedica all’antico per il Banchetto dei Vitali 9 Aprile 2015 – Posted in: ART, BOOKS

Il contributo critico di Leonardo Castellucci al volume Il banchetto del Medeghino.

Lessico da cruscante, incedere prosastico di cifra ottocentesca, a tratti manzoniana, libere scivolate sul dizionario lacustre, con strettissime concessioni a un gergo in uso, chissà, anche nelle vicine Colico o Varenna, ma non oltre, per comprensibili motivi di campanile. E poi, soprattutto nella seconda parte della narrazione, quando gli eventi prendono a scaldarsi, in un concitato incalzare di colpi di scena, una scrittura che, se possibile, si fa ancora più aulica, rimbalzante, musicale e divertita, così da tracimare dolcemente in una ‘prosa in lirica’, continuamente tentata dalla metrica. Insomma una vera lingua sincretica e reinventata che pare uscire spontanea e facile perché frutto di uno speciale godimento letterario che si sente crescere, in intensità, fra le righe. Ma andiamo per ordine.
Le prime pagine, per ambientazione, dizionario e ritmo narrativo, paiono quasi una dedica ai Promessi: “Andava passo passo il Signore di Bellano, Polidoro, lungo l’austero corridoio del convento di San Nicolao. Teneva la velocità di sua lentezza padre Urbizio, superiore degli Agostiniani, di molti calli afflitto e di voce assai remota (qui l’accostamento all’iniziale passeggiata di Don Abbondio che inciampa sulla sgradita sorpresa dei Bravi, è lampante). E ancora: “Gli ordini che gli giungean dal Medeghino erano diventati, oltre che perentori, densi di una condiscendenza irridente (ossimoro molto affine allo stile del Manzoni): dietro le sue parole o tra le righe dei suoi scritti, si leggea lo sprezzo di chi tiene il brando per l’elsa”. Poi nella scrittura entra una costruzione che allude a quella della storica traduzione dell’Odissea di Pindemonte, su cui certo Vitali ragazzo avrà speso le sue sudate carte.Giancarlo Vitali
Vediamo: “E potea un Signore al pari suo, di glorie onusto e di ori e di vittorie, negare a un nobile in prigione che da tanti anni ormai languiva nella sofferenza, nel buio e in mezzo ai ratti, di dar soddisfazione con l’esaudire l’ultimo desiderio prima di rendere l’anima ai cieli?”. E pure: “Il Medeghino grattossi il capo e sospese la risposta. Poi, per esibir disprezzo, chiamò a’ suoi piedi un nano bitorzoluto che nella sua corte aveva funzione di bardo e di gioppino”. Molto godibile anche la scelta di riabilitare termini non più in uso ma di alto spessore lessicale quali Captivo (nel significato di prigioniero), Niuno, Sembiante, Desiato, Onusto e quella di ricorrere a fraseggi altrettanto ammiccanti all’antico, come nel caso di Far burletta a un foresto o in quello di Privato conversario. Infine lo scrittore si diverte a pescare nella letteratura tout court quando definisce vermilinguo il perfido Carmicola, prendendo in prestito, crediamo, il termine spregiativo dalla saga de Il Signore degli Anelli (Grima Vermilinguo è, infatti, l’epiteto dato da Gandalf al consigliere traditore di Re Théoden di Rohan).

Ma in questo bel racconto, che rievoca la dispotica personalità di Gian Giacomo Medici, conte di Lecco e Marchese di Musso, uno fra i più arditi e spietati Signori del Rinascimento lombardo, Vitali, non si limita a mettere insieme una narrazione riferita a passati stilistici temporalmente diversi ma, attorno a figure e contesti storici reali o comunque credibili, costruisce anche una drammaturgia ‘retrò’, giocata sulle azioni e sui moti dell’animo, in cui i personaggi sembrano riferirsi agli stilemi della Commedia Classica: il duce cattivo e assetato di potere, il signorotto onesto e gabbato dal primo, il frate buono, tanti personaggi di contorno, afflitti dalla quotidiana urgenza di mettere insieme il pranzo con la cena, una lei protagonista negativa, causa il suo ripugnante aspetto, un consigliere traditore.

Ma c’è da dire molto più del solito anche sulle scelte figurative di Giancarlo Vitali che, nell’attuale episodio, il quattordicesimo di questo intrigante connubio, avviato già dal 2010 col più giovane amico scrittore, individua la sua consueta narrazione parallela in una sua opera di un non più recente passato. Opera di grande valore formale e di altrettanto successo critico. Il nostro pittore apre un prezioso cassetto dello studio e sfoglia il suo storico catalogo dei D’Après, una raccolta di opere su carta, realizzate fra il 1985 e il 1992, che prese corpo per rendere omaggio ai suoi maestri formativi, non quelli delle Accademie delle Belle Arti ma quelli che, nell’inconscio collettivo di ogni artista che sia tale, hanno da sempre agito come modelli assoluti di proiezione, se non di riferimento. Non copie, certo ma neppure studi, né, tantomeno, presuntuose sfide al confronto, piuttosto spunti per una rispettosa rilettura che potesse gettare un ponte fra passato e presente, come per dire che il tempo non fa differenze di stili se la sostanza è la bellezza, qualunque riferimento estetico essa abbia scelto per manifestarsi nello scorrere dei secoli. E allora, dalle pagine del catalogo, spuntano, quasi chiamati a un imprevisto e improvviso risveglio, i protagonisti del racconto, il barcaiolo Svezio, Iulio, Gelindo e Brocco, i suoi compari, l’orgoglioso Polidoro, Signore di Bellano, il freddo e spietato Medeghino, la sua bruttissima e infelice sorella, il frate Urbizio, il cinico Carmicola, la Strega veggente e perfino l’alito perverso del Demonio, tutti rintracciati e credibilmente raffigurati in queste opere su carta che il maestro aveva realizzato proprio prendendo avvio dai capolavori di quegli antichi Maestri fra cui si riscontra il tratto essenziale ed elegante di Pisanello, quello esemplarmente realistico di Moroni, quello sprezzante e malinconico del Ceruti, quello allusivo e quasi caricaturale di Bruegel, fino a Caravaggio, Velasquez, Rembrandt, Goya, da lui ripensati attraverso tecniche diverse: monotipi a inchiostro, chine, lapis, tempere su incisione. Una rassegna formalmente ammirevole che, in questo devoto e prezioso atto d’amore, condensa sei secoli di storia figurativa. L’artista completa la sua narrazione con altre opere a corollario che ricalcano i suoi temi più consueti: le nature morte, i pesci di lago, che paiono impronte fossili sui piatti delle sue paradigmatiche e bellissime tavole sparecchiate alla fine di un banchetto. Sia esso quello del Medeghino o di qualsiasi altro signore posseduto dall’atavico morbo del potere.