Il Luogo di Milo Melani 10 Dicembre 2015 – Posted in: ART

Il contributo critico di Leonardo Castellucci al catalogo della mostra Milo al Monasteraccio dell’artista Milo Melani.

Milo, due sillabe, un tempo binario, svelto. Un nome che riecheggia in questa bella e remota casa delle prime colline fiorentine, come messa lì e solo lì a segnare un confine fra l’ultima vita della città e quella più spontanea, libera e segreta della campagna. Casa da lui scelta, credo, come limite, come traccia di un confine fra due dimensioni della vita: volti lo sguardo a destra e sei già in relazione col quotidiano brulicare, lo fai a sinistra e s’accende l’immaginario della macchia, del bosco, degli uliveti, dei viottoli, dei muretti a secco, di un silenzioso e non programmabile viaggio. Una casa ma soprattutto un ‘luogo’, che Milo deve aver sentito come una serena abitazione per lui, sua moglie e i suoi tre figli e insieme come un contemporaneo romitorio, dimensione perfetta per la sua natura d’artista, raccolto nella pervicace ricerca della propria evoluzione umana e creativa.
Qui, fra il quotidiano, consueto riecheggiare di quelle due sillabe (mi piace immaginare che anche i figli lo chiamassero per nome) Milo Melani ha coltivato il suo pensiero artistico per gli ultimi quindici anni di vita. Fino al 1988, quando se ne partì verso quella luce che via via si era fatta largo, imperiosa, nelle sue tele, dopo quegli inizi così fortemente implicati nelle ombre realistiche e sofferte di una quotidiana fatica operaia, così desolate nella denuncia di una tangibile povertà, figlia di una rapinosa disparità sociale. Opere bellissime queste, sorrette da un talento disegnativo che non s’impara ma che semmai s’affina e da una tavolozza di contrasti luministici di forte, drammatico espressionismo. Erano gli anni ‘50, quelli dell’impegno e della lotta di classe, quelli del Neorealismo, del Fronte Nuovo delle Arti, di un neocubismo, riletto attraverso gli spigoli del vivere, che ebbe nella Crocifissione di Guttuso un paradigmatico riferimento per quell’intera generazione di giovani arti- sti. E per Milo pure, che in quegli stessi anni, si era spostato a Roma per dare esperienza, senso e forma al suo avvio artistico. Poi giungerà un tempo diverso, più interiore, intimo, affettuoso, in cui i temi si scalderanno attorno agli affetti familiari, a quelli dell’amatissima Marisa, moglie e solida stabilità affettiva e dei figli Cosimo, Cecilia e Francesca. E su quella sostanza nuova la tavolozza si orienterà verso cromie più nitide e lievi, naturale germinazione di una ricerca interiore, vorrei dire iniziatica, che, infine, gli svelerà la sua ultima e più liberata fase espressiva: una scultura povera nei materiali ma di altissima valenza formale, come un rielaborato dell’Antico proposto attraverso la nuova figurazione di un paradig- ma mitico che accompagna l’inconscio della cultura occidentale. Come a dire che quei Pegaso, quei Fauni, quei Centauri, quei Minotauri non abbiano significato per lui, solo un punto d’arrivo artistico ma anche una scoperta di sé sul piano umano e spirituale. Un riconoscersi dunque nei valori simbolici dell’esistenza, che agli archetipi del mito sembra ciclicamente poggiare le speranze di un impossibile sogno d’Assoluto. Per questo, la casa studio di via del Monasteraccio, il luogo di Milo, dove ancora oggi vive e lavora suo figlio Cosimo, amico carissimo di vita e di lavoro e anche lui artista d’interdisciplinare talento, pare la sede più felice per una mostra che vuole completare la percezione di un’artista importante, evocandolo dentro quel suo ambito domestico in cui s’è cercato con ostinata dolcezza. E con consapevole riserbo.