Saggio. Riflessi della fede nell’arte contemporanea 10 Giugno 2013 – Posted in: ART

Saggio introduttivo a firma di Gian Luigi Daccò al catalogo della mostra Riflessi della fede nell’arte contemporanea.

Vi è qualcosa di sacro nell’arte e, anche quando l’artista non ne è consapevole, sta compiendo una liturgia del mistero.

Alla mostra The Glory of Byzantium del 1997 al Metropolitan Museum di New York, alcuni visitatori, anziani immigrati greci, si facevano sempre il segno della croce davanti alle icone esposte. Così, per evitare simili manifestazioni di culto considerate inappropriate in un museo, gli organizzatori della mostra ateniese Mistero Grande e Arcano del 2002, progettarono un allestimento che poneva una grande distanza tra le icone esposte e i visitatori. Quegli anziani immigrati greci della mostra bizantina di New York portavano con sé le proprie usanze, l’habitus cioè della Chiesa e non del Museo. Gli organizzatori della mostra di Atene volevano invece che anche gli anziani fedeli ortodossi si comportassero come tutti gli altri visitatori: ammiratori di dipinti antichi, estraniati come oggetti di culto, perché identificati ed esposti soltanto come opere d’arte. Proprio in quegli anni in Italia Gillo Dorfles dava inizio a un dibattito, condotto sulle colonne del Corriere della Sera, intitolato: “Religione e modernità. L’arte sacra contemporanea? Che orrore” e poneva due domande cruciali: “È sufficiente la fede per far accettare la mediocrità di tanta arte sacra contemporanea? E, d’altra parte, è possibile un’arte veramente attuale che sia anche sacra?”. Impressionato dall’infima qualità di molte opere adibite a luogo di culto nonché dalla facile accettazione del kitsch nelle chiese, Dorfles chiedeva come spiegare il fatto che “l’arte religiosa, che pure dominò nell’Occidente cattolico un’ininterrotta serie di secoli, abbia perso oggi quasi ogni diritto di cittadinanza e abbia dato ben poche prove di sé, se non in qualche opera architettonica”. Più recentemente Monsignor Timothy Verdon riprendeva sull’Osservatore Romano del 12 gennaio 2008 questo acceso dibattito, che aveva visti impegnati, oltre a Dorfles, filosofi, museologi e critici d’arte. Sosteneva Verdon che la domanda di Dorfles rimaneva ancor oggi del tutto pertinente, dati gli adattamenti spesso maldestri di stili contemporanei e i risultati quasi sempre deludenti degli artisti in questo campo, ma era anche una domanda urgente, per l’importanza che la Chiesa tornava ad attribuire all’immagine sacra, definita da Benedetto XVI come una forma privilegiata di “predicazione evangelica”. Un’arte sacra contemporanea, continuava Verdon, se non altro come atto di fede, è possibile ma anche molto, molto difficile. Questi episodi sono egualmente emblematici e dimostrano come arte e fede, da più di un secolo, abbiano imboccato strade molto divergenti: mentre la Chiesa sembra essersi ritirata su moduli artistici legati al passato, si direbbe che le culture figurative del Novecento nutrano un’insofferenza per la tradizione artistica precedente, una sorta di estremizzazione del rifiuto dell’oggetto bello. Un portato della rottura con l’Umanismo, religioso ma non solo, che caratterizza la nostra era tecnologica. L’arte del Novecento ha dimenticato il divino con la perdita della certezza del valore e della norma, e l’invalidità della tradizione.
Per Hans-Georg Gadamer la crepa è ben più profonda: nel corso della modernità si sta spezzando un legame addirittura più sostanziale, quello tra arte e vita. Nonostante ciò, l’opera d’arte contemporanea mette a nudo proprietà del linguaggio che altrimenti rimarrebbero invisibili e inesplorate, l’intenzione di significare va al di là dell’evento e raccoglie significati che, negli altri linguaggi, andrebbero dispersi. Ma l’arte contemporanea è anche gioco, l’arte è critica, l’arte è polemica, l’arte è conflitto. Tutta l’arte contemporanea è nata da dibattiti, da conflitti, basandosi sulla nozione che crisi, conflitti, non solo di interessi ma anche di idee, non sono passeggeri: sono una condizione permanente della nostra esistenza. “In un tempo di grande travaglio, un tempo di grande cambiamento è normale che l’arte riproduca questa cifra del travaglio e di fronte ad essa – dico ciò che tento di fare io – proprio in forza della natura stessa dell’espressione artistica il problema non è tanto capire, non è tradurre in concetti o in interpretazione, ma guardare, guardare molto” ha detto il cardinale Angelo Scola in occasione della recente mostra sul nuovo Lezionario Ambrosiano.

L’artista e la liturgia del mistero

È innegabile che oggi per gli artisti sia molto difficile rappresentare i temi della Cristianità che per secoli sono stati la prima fonte di ispirazione artistica. Un’epoca difficile, la nostra, che sembra aver perduto il senso del sacro. Ne sono espressione tanti esempi di architetture moderne destinate al culto cristiano, spesso sacrificate all’estro individuale di chi non conosce, o volutamente rifiuta, il significato degli spazi liturgici tramandato dalla tradizione. Sculture, arredi, dipinti, sono quasi sempre progettati separatamente, senza tener conto del contesto in cui andranno, spesso uguali per una piazza, una scuola, una cattedrale. Un’arte che spesso è troppo autoreferenziale, legittimata solo dal sistema dell’arte, quando non dal mercato, e la Chiesa non è più considerata il principale destinatario delle opere d’arte. Improvvisazioni, disinvoltura, scarse conoscenze teologiche e liturgiche sono state la causa, negli ultimi decenni, di interventi molto discutibili. Scriveva Paul Ricœur: “Siamo sommersi dai discorsi, dalle polemiche, dall’assalto del virtuale che, oggi, creano come una zona opaca. Ora, la bontà è più profonda del male più profondo. Dobbiamo liberare questa certezza, darle un linguaggio, e il linguaggio non è quello della filosofia, neppure della teologia, ma quello della liturgia; e per me, la liturgia non è semplicemente azione, è un pensiero. Nella liturgia c’è una teologia nascosta, discreta, che si riassume nell’idea che la legge della preghiera è la legge della fede”. Molti anni prima, un teologo russo fatto fucilare da Stalin, Pavel Florenskij, scriveva: “La religione non è speculazione sulle cose di Dio ma accoglimento del divino nella sua essenza. Perciò la preghiera è, per il credente, superiore perfino alla lettura del Vangelo, i gesti liturgici – per quanto somiglino a parole e atti consueti – se ne distinguono per una forza misteriosa, mistica, soprannaturale […] la sintesi del rito liturgico non si limita alla sola sfera delle arti figurative, ma attira nel proprio ambito anche l’arte vocale, la musica, la poesia. Tutto è subordinato a un unico scopo, all’effetto supremo della catarsi e perciò tutti gli atti e gli oggetti – reciprocamente subordinati – se presi singolarmente non esistono, o esistono in modo errato”. Tutte le cose, nell’arte sacra e nella liturgia, se prese singolarmente non esistono, o esistono in modo errato.
Questa idea folgorò anche Henri Matisse, l’artista che concepì la Cappella di Santa Maria del Rosario di Vence, in Provenza, consiglieri di teologia e liturgia due Domenicani, i padri Couturier e Rayssiguier. Ormai vecchio e quasi paralizzato si gettò a corpo morto nella progettazione della cappella: vetrate, paramenti, arredi sacri, realizzando tutto lui. In quegli anni era ormai immobile, e non poteva più usare nemmeno le mani, allora disegnava su fogli colorati servendosi di un bastone, e poi li tagliava e li incollava. Prima di morire abbandonò anche il colore. “Forse scoprì che il suo grande sogno era sempre stato la vetrata, ossia il colore, ma, insieme, qualcosa che oltrepassa il colore: la concentrazione della luce. Una concentrazione che diviene fulgore” (Giovanni Testori). Matisse concretizzava così un assunto centrale della Teologia medievale: “Dio è luce, una luce indefinibile e completamente trascendente”. Vi è qualcosa di sacro nell’arte, e anche quando l’artista non ne è consapevole, sta compiendo una liturgia del mistero.
Questa dinamica tocca il vertice nel rapporto arte e liturgia, perché quando l’arte interagisce con la liturgia è chiamata a collaborare all’azione simbolica per eccellenza. La Chiesa è il territorio dell’incontro, ma, in particolare, luogo della vita liturgica, in tutte le sue dimensioni. Stanislas Fumet, citato dal Cardinale Scola, nel suo ancor attuale Processo all’arte (2002), affermava: “Chiamata ad esprimere il bello non si domanda all’arte, giustamente, che una testimonianza”.

Il Simbolo

Per secoli il Simbolo è stato un modo di pensare e di sentire, talmente intrinsecamente connaturato negli artisti cristiani che questi non avvertivano il bisogno di informare i fedeli delle loro intenzioni semantiche o didattiche. Il Simbolo, sempre polivalente e proteiforme, si poneva a diversi livelli di significato, esprimendosi non soltanto con immagini ma anche con parole, oggetti, gesti, rituali. Sugerio di Saint-Denis, nel 1143, scriveva nel Libellus Alter de Consecratione Ecclesiæ Sancti Dionysii: “mi è sembrato molto giusto far servire tutto quello che esiste di più bello e di più prezioso all’amministrazione della Santa Eucarestia. Certamente né noi né le nostre cose possono bastare a servire così grandi misteri”. “Tantum tamen propitiationem pro peccatis nostris habemus”. Nel Medioevo, l’arte era il riflesso di tutta l’esistenza dei cristiani e dei loro pensieri abituali: come sono state confrontate alle Summæ teologiche le grandi cattedrali gotiche, così possiamo accostare agli scritti monastici le chiese abbaziali romaniche, che ne hanno la stessa semplicità, la stessa solidità, la stessa vivacità di immaginazione biblica. Ma se questo intimo rapporto è ormai perduto, come affermava Giovanni Paolo II nella Lettera agli artisti del 1999, pur nell’odierno distacco tra il mondo dell’arte e il mondo della fede, “ogni forma autentica di arte è, a suo modo, una via di accesso alla realtà più profonda dell’uomo e del mondo” e la Chiesa continua a nutrire grande apprezzamento per il valore dell’arte, “anche al di là delle sue espressioni più tipicamente religiose”, perché “quando è autentica, [l’arte] ha un’intima affinità con il mondo della fede”. D’altronde, come sottolineava Dorfles, l’arte sacra ha sempre utilizzato un vasto spettro di elementi metaforici e traslati, tutti simboli che hanno sempre inciso profondamente sul pathos dei fedeli, e questo materiale simbolico è tuttora disponibile ed è oltretutto facilmente adattabile alle esigenze stilistiche dei nostri giorni. Centrale, allora, la funzione del linguaggio nelle sue varie modalità e forme espressive concrete, considerato non solo come insieme di segni, di tecniche, ma visto nella sua valenza simbolica, capace di aprire all’esperienza del sacro, spunto per illuminare, attraverso le immagini, quella dimensione trascendente in cui l’uomo ricerca e trova il senso della propria vita. “La verità – scriveva Pareyson alla fine del secolo scorso – non può offrirsi all’uomo se non attraverso una facoltà umana fervida come la fantasia, sia poetica sia speculativa. […] Il mondo simbolico è mitico, non mitologico: esso è condensato nei simboli, non si risolve nei “grandi racconti” di cui il postmoderno ha decretato la fine. Dal Simbolo si irradiano infinite figure: a differenza della metafora il cui modo di essere è instabile e precario, sempre minacciato dallo scadere nell’allusione e nel rinvio, il Simbolo s’impone per la sua concretezza fisica che tuttavia rimanda ad un’infinità di significati”.

Il discorso del sacro, oggi

A questo punto dobbiamo domandarci come possa sopravvivere ai nostri giorni un’arte sacra, quando la figuratività è quasi scomparsa, non si sa più come sostituire la carica iconologica del passato, il pensiero simbolico è del tutto estraneo dalla nostra esperienza di ogni giorno. Inoltre, come ricordava Paolo Biscottini nella sua polemica con Dorfles “la rappresentazione di un artista può riferirsi alla storia sacra, ma non avere caratteristiche artistiche. Né la fede può salvarla da tale impotenza creativa. Molta della produzione del nostro tempo rientra in questa ultima casistica. Complice una troppo generica domanda devozionale, committenti e artisti si sono accontentati di ripercorrere in modo stanco e banale la più scontata iconografia. Ne è derivata una produzione che mortifica in questo senso la natura dell’arte, nonostante tutte le buone intenzioni”. È indispensabile però che la comunità cristiana sia capace di discernere l’opera d’arte coerente con la liturgia, in modo che essa partecipi veramente alla concelebrazione e che la Chiesa riscopra l’autorevolezza audace di chiedere agli artisti di mettere al servizio della liturgia la loro arte. L’opposto dell’arte religiosa, infatti, non è il profano, ma il Secolare cioè la negazione di ogni trascendenza. La questione del legame tra il patrimonio espressivo e tecnologico dell’arte contemporanea e l’arte sacra, penso che si debba declinare nella riflessione su cosa significhi fare arte nello spazio sacro oggi. Giunti a questo punto, forse, come Verdon aveva ricordato, si può dire che il sacro non è solo ciò che può porsi in letterale riferimento alla storia sacra, ma ciò che esprime la verità dell’uomo e aggiungere, anche, che l’esperienza del sacro è indissolubilmente legata allo sforzo compiuto da ogni uomo per riconoscere un mondo che abbia un significato. La Chiesa ha da sempre visto nell’arte un importante mezzo di comunicazione, ed è questo l’argomento su cui questa mostra intende riflettere, in un momento storico in cui il mondo dell’arte contemporanea pare essere del tutto impermeabile al messaggio evangelico. Sembra che ormai, nei luoghi dell’espressione artistica, la catena si sia spezzata, che sia andato in frantumi il rapporto stesso dell’uomo con Dio e se è davvero così il piccolo impegno di questa mostra è anche un impegno inutile. O forse no, ricordando quanto Paolo VI, in chiusura del Concilio Vaticano II, l’8 dicembre 1965, dichiarava nel suo Messaggio agli artisti: “Questo mondo, nel quale noi viviamo, ha bisogno di bellezza, per non cadere nella disperazione”.

Della mostra

Questa mostra non vuole essere una rassegna di arte sacra, ma un semplice avvio di riflessione sul rapporto tra Fede e Arte contemporanea, oggi. La fede personale degli artisti non è stata presa in considerazione, si sono invece scelti autori, alcuni del territorio, che abbiano condotto negli anni un discorso preciso e coerente, con una coscienza e una dimestichezza dei propri mezzi che non è possibile improvvisare. La mostra, in fondo, rispecchia un’epoca in cui declina l’idea di storia come insieme sensato e si tende a percepire il tempo come un flusso elastico, dominato dal frammento e dal caso. Si è lavorato con gli artisti, discutendo, approfondendo, condividendo con loro le scelte. Non si è voluto, dichiaratamente, privilegiare un linguaggio o una generazione. E così, in mostra, si va da autori come Collina e Vago, la cui produzione pittorica è contrassegnata dalla scelta del tema del sacro ad altri come Stefanoni, Destito, Lupica che molto raramente, o mai, si sono confrontati con questi temi. I lavori di Tino Stefanoni e Claudio Destito perseguono una linea in cui i concetti e le idee espresse sono più importanti del risultato estetico e percettivo dell’opera stessa. Il lavoro del primo, pervaso di sottile magia, pur non appartenendo in senso stretto a quello dell’arte concettuale, di fatto si è sempre sviluppato nella stessa area di ricerca, mentre il secondo, attento anche all’arte minimale, gioca costantemente sull’ironia. Il sacro connota invece la produzione pittorica di Collina e di Vago: Giuliano Collina, pure in questo ambito, persegue una ricerca linguistica dove il soggetto appare essenzialmente come uno spunto per dispiegare la gioia del dipingere. Valentino Vago, uno dei più significativi artisti della pittura italiana di questi ultimi decenni, resta inconfondibile per la qualità della luce e la liricità del segno. Anche due autori molto diversi come Gasparini e Lupica hanno accettato di confrontarsi, qui, sul rapporto tra fede ed arte. Nino Lupica, artista di fantasia barocca, entra con segno forte in questa materia per lui inusuale, Giansisto Gasparini dai lontani temi urbani e sociali, alla recente attenta meditazione sulle montagne, ritrova il filo di un discorso che aveva cominciato a dipanare, molti anni fa, nelle vetrate delle sue chiese di Voghera. Completano la rosa altri due estremi della concezione dell’arte. Da una parte Alfredo Chiappori, geniale ed eclettico outsider che ha saputo imporre all’establishment le sue strisce satiriche, i suoi romanzi, il suo teatro e, negli ultimi anni, inusuali riflessioni su libri della Bibbia poco conosciuti dal grande pubblico, come Bereshit o il Qohelet. E infine Giancarlo Vitali, il pittore-pittore, a tutto tondo, che ha affrontato da maestro, in profondità, ogni tema, sicuro dei suoi mezzi e della sua vocazione, senza, mai, un compiacimento. Uomo lombardo, figlio della grande tradizione figurativa delle Prealpi, come scrive Mario Botta, “dove le figure sono parti che interagiscono in totale osmosi con la luce e le configurazioni della geografia, dove le masse potenti dei monti approdano sui piani orizzontali delle acque dei laghi; per questo è impossibile immaginare il nostro pittore al di fuori di questo contesto”.
Si sono voluti tra gli autori anche due fotografi: Cesare Colombo e Luigi Erba. La fotografia, fino al recente Lezionario Ambrosiano, non era mai stata utilizzata a livello liturgico, forse perché era considerata lo specchio istantaneo del tempo, al massimo da utilizzare come documento dell’attività della Chiesa nella storia. La scelta di Erba e Colombo vuole rappresentare due tendenze della fotografia contemporanea: mentre il lavoro del primo privilegia una ricerca linguistica di riflessione, simbolica, che nega la fotografia come scatto unico, il secondo invece usa duttilmente la fotografia come strumento narrativo di decifrazione di spazi e, soprattutto, di definizione di rapporti sociali.