Il fagiolo Zolfino 11 Maggio 2010 – Posted in: FOOD

fagiolo zolfinoCi sono specie vegetali che madre natura ha messo a disposizione dell’uomo senza richiedere difficili e azzardate salite sugli alberi (da cui, secondo il buon vecchio Darwin abbiamo fatto altrettanta fatica a scendere) e senza laboriosi scavi. Una categoria di frutti, particolarmente, sembra fatta apposta per soddisfare il bisogno primario di nutrire l’organismo, soddisfare stomaco e bocca ed essere raccolta senza fatica. Botanicamente parlando si tratta della categoria dei “legumi“, dal latino legère che significa “raccogliere” ma anche “scegliere”.

“Tutta l’erba che rizza la cresta, I’è bona per la minestra”, dicono sul versante del Pratomagno che guarda in Valdarno. E a cavallo dei mesi di giugno e luglio, tra i filari degli olivi, sugli appezzamenti a terrazze modellate dal muretti a secco, vicino alle coloniche ed alle pievi romaniche, ad alzare la cresta sono anche i fiori bianchi del fagiolo Zolfino.

Tutti i legumi (e gli Zolfini non fanno eccezione) hanno una caratteristica particolare: ripagano le loro modeste dimensioni con l’elevato numero di semi contenuto nel baccello. Possono essere anche mangiati crudi ma diventano sorprendentemente attraenti una volta cotti, si prestano a lunghe conservazioni una volta disseccati e ripristinano la loro densa tenerezza quando vengono lasciati in ammollo qualche ora. Comunque siano impiegati, i molti (oltre 600) frutti delle leguminose sono alimento completo e perfetto: contengono amido (uno zucchero “composto” con funzioni energetiche), ferro, vitamine e sali minerali e rappresentano la migliore alternativa alla carne in forza del loro altissimo contenuto di proteine. Che poi le proteine della carne siano dette “nobili” e quelle dei legumi siano considerate “plebee” spiega perché i legumi non siano in obbligo di comportarsi signorilmente in fase digestiva…

E gli Zolfini – che inconvenienti da aerofagia non ne provocano! – son tanto modesti quanto nobili, fin da quando, e son più di quattro secoli, cominciarono ad essere coltivati negli orti del Valdarno. Sembravano fatti apposta per saziare, infondere energia e garantirne per l’inverno a venire. Davano corpo e sostanza a zuppe e minestre (ribollita, pasta e fagioli, minestra di pane), come contorno alle cotenne di maiale – unica carne alla portata di molte famiglie – oppure al fiasco, all’uccelletto o conditi con olio su una fetta di pane anche stantìo. Poi, nel dopoguerra, (travolto della logica del supermercato, dove i prodotti devono essere grossi, belli e lucidi) lo zolfino sparì a dispetto del saper mangiare e delle ragioni del palato. Venne sostituito da varietà di fagioli più produttive e meno delicate, che si prestavano meglio per essere messi nelle scatole dall’industria e per stare sulle scatole ai buongustai. Sparì perché bizzoso alla germinazione, nevrotico alle irrigazioni e scabroso nella conservazione. E per trent’anni nessuno ne ricordò più l’esistenza.

Verso la fine degli anni Ottanta la nuova cultura della tavola si accorse che gli Zolfini si erano acquartierati (in Valdarno, in Garfagnana e nei campi che da Monsummano guardano alla Valdinievole) in minuscole “enclaves” ostinatamente impermeabili all’omologazione alimentare. Scampati all’estinzione, oggi i fagioli Zolfini sono il vanto di tanti piccoli agricoltori che ne perpetuano la produzione sulle colline e le pendici montuose attorno alla strada di Setteponti. Non c’è osteria o trattoria del luogo che non li includa orgogliosamente nei menù: raffinati, gustosi, cari, ricercati e addirittura scimmiottati come si fa con le griffe dell’alta moda. Piccoli, irregolari, arrotondati e gialli, gli Zolfini si concedono a questa terra in non più di quattrocento quintali di prodotto. Ad abbracciarne la pasta densa, cremosa di sapore intenso e particolare, sta una buccia color di zolfo, talmente sottile da disfarsi in bocca dopo aver resistito alle più lunghe cotture. È grazie a questa mirabile “pelle” che una volta essiccati (e durano l’anno intero) possono essere cotti senza affogarli per ore com’è invece richiesto dai “cugini” più comuni e meno saporiti.

Crescono solo in Valdarno dicevamo, e tutti gli esperimenti intrapresi per esportarli altrove hanno miseramente fallito. E qui potrebbe capitare di sentirli chiamare “fagioli burrini” – a sottolineare che una volta cotti si sciolgono in bocca – anche se ai contadini piace additarli come “fagioli del cento”, ad esser certi che i figli non disimparino a seminarli poco prima della metà di Aprile, centesimo giorno dell’anno.

Ad agosto e settembre le piante vengono raccolte e lasciate seccare al sole. Quindi sono stese a terra per essere liberate dai baccelli battendole col correggiato, un attrezzo composto da due bastoni – uno lungo da impugnare e uno corto e battente – collegati da una corda. Qualcuno effettua questa operazione percorrendo più volte con l’automobile l’aia di casa ricoperta di piantine essiccate al sole ma un tempo servivano alla bisogna anche gli zoccoli degli animali e i calessi. Per separare i fagioli dai residui dei baccelli, è tradizione ricorrere al “vaglio”, un grande setaccio di legno maneggiato ad arte per agitarli e buttarli in aria in modo che la paglia, più leggera, sia trasportata via dal vento. Dopo due giorni al sole ad asciugare, gli zolfini sono pronti a sottostare all’eterna legge che governa domanda e offerta. Poca disponibilità di prodotto e un’elevatissima richiesta del mercato fanno raggiungere agli Zolfini un prezzo di anche 20 Euro per chilo. Un costo spropositato rispetto alle altre tipologie di fagioli ma assolutamente ragionevole considerando la fatica, la rarità e il gusto di queste perle della campagna Toscana.