Arie balcaniche di Andrea Vitali e Giancarlo Vitali – Arie subliminali e altre storie 13 Giugno 2016 – Posted in: ART, BOOKS

Dalla presentazione di Leonardo Castellucci al 16° titolo della collana iVitali (Andrea Vitali e Giancarlo Vitali): Arie balcaniche

Giancarlo Vitali

Opera di Giancarlo Vitali

Ci sono due anime narrative in Andrea Vitali.
Una più nota e largamente apprezzata, che lo annovera fra quel genere di scrittori che prestano il loro immaginario letterario al proprio piccolo mondo quotidiano, riconoscendo alla forza del Genius Loci un valore universale, tanto da far assurgere la nativa Bellano, teatro dei suoi romanzi e i personaggi che li animano – preti, impiegati, farmacisti, zie, carabinieri – alla condizione di paradigma.
Una molto diversa e più recente che gli sta svelando un’altra parte di sé che forse solo adesso, dopo un successo letterario riconosciuto e confermato nel tempo, s’è fatta avanti, come un’impellente necessità, nella sua quotidiana applicazione alla scrittura. Anima più complessa, indefinita, criptica, che a differenza dell’altra sembra lavorare per simboli, per archetipi, per percorsi alogici, abbracciando l’etereo, la surrealtà, il misterioso e affidandosi a una ricerca, anche nella cifra espressiva, affrancata da necessità e da vincoli realistici.
Ci sono illustri esempi in tal senso nella letteratura del nostro tempo: i romanzi e i racconti ‘sospesi’ di Buzzati, le simboliche e sarcastiche storie di Dürrenmatt, perfino i grandi riferimenti del Teatro e della Letteratura dell’Assurdo, tanto cari a un gruppo d’intellettuali europei nell’immediato Dopoguerra.
Ma le nuove storie di Vitali, sembrano non essere dirette filiazioni di tali grandi referenti semmai solo condividere con essi un comune clima narrativo, visto che la loro originalità li libera da qualsiasi modello di riferimento. Insomma l’altro Andrea Vitali ha ormai da tempo scelto la presente collana quale palestra per sperimentare e affinare questa suo diverso percorso narrativo. Lo ha fatto con Enigma di Ferragosto, poi con Merk e i gatti, in maniera ancora più marcata con Il Custode e adesso torna Giancarlo Vitalisull’argomento con questi due racconti dalle atmosfere indistinte, evanescenti, estreme. Due racconti diversi ma legati dal filo rosso dell’indecifrabile.
Nel caso di Arie balcaniche, ad esempio, il narrato pare la resa in prosa di un testo teatrale, in quell’insistito, concitato incontro fra il protagonista, o meglio il modello, di un uomo spersonalizzato da un ego che lo rende cieco e sordo alla realtà e i due coprotagonisti, utilizzati dallo scrittore con l’unico scopo di far risaltare la presuntuosa incapacità di vedere del primo.
In Coltivavano i campi, invece, Vitali entra in una storia senza un vero svolgimento, quasi che i protagonisti si presentassero come apparizioni di un sogno dove l’inizio e la fine sono come due momenti che si toccano o forse, addirittura, lo stesso momento. E nel mezzo qualcosa che succede ma che non può essere letto con i riferimenti della realtà, in una fermezza che richiama le atmosfere livide e ansiogene dei nostri sogni più inquieti.
Questo senso d’indistinto, inconscio procedere del narrato libera la mano di Giancarlo Vitali in un’affannata e spesso sorprendente ricerca di volti e di espressioni interiori, quasi apparizioni dei nostri fantasmi, talvolta irridenti, talvolta semplicemente attoniti, talvolta imprevedibilmente sinistri. Volti che poi si raccolgono in gruppi umani sospinti e sbandati dal loro stesso andare verso nessuna vera meta, piuttosto verso una deriva, un oblio o un girone infernale che già il Potere, qualsiasi esso sia, ha in serbo per loro.
Masse di esseri soli e senza una vera via d’uscita o una speranza di salvezza, che escono sulla carta con gli occhi allucinati dei personaggi di Bosch, con l’acuminato e sofferente segno di Bruegel il Vecchio, con la valenza interiore delle Pitture Nere della Quinta del Sordo che Goya dipinse nei giorni maledetti del suo disagio. Tutti grandi riferimenti formativi della pittura di Vitali che qui sembrano riaffacciarsi, in una sorta di osmotica rielaborazione, come un corale e muto urlo di smarrimento.

Leonardo Castellucci