Uomini, maschere di un eterno Carnevale. Giancarlo Vitali 23 Agosto 2014 – Posted in: ART

Le Maschere (Giancarlo Vitali)L’intervento critico di Michele Tavola al catalogo Le Maschere.

Dipingere una maschera è un modo di interpretare, è un tentativo di fare emergere il significato vero e profondo di ciò che sta sotto la maschera stessa. Qui ne se grime pas?, ovvero, Chi non indossa una maschera? è il titolo di una delle tavole più belle e drammatiche del Miserere di Georges Rouault, peintre-graveur tra i più amati da Giancarlo Vitali, che attraverso il volto del clown triste racconta il duro mestiere di vivere e scava senza compromessi alla ricerca di ciò che è nascosto dal travestimento. Questa è la via, indicata da Rouault, per analizzare un tema affrontato per tutta una vita, senza soluzione di continuità, dal pittore di Bellano. La maschera è filtro per leggere la vita, in ogni epoca e in ogni contesto sociale.
Gli amanti dell’opera di Vitali e i più attenti conoscitori del suo lavoro, di fronte a questa tipologia di dipinti avranno sicuramente sulla punta della lingua il nome di un artista senza dubbio apprezzato e studiato dal bellanasco, ovvero James Ensor, autore di tele al vetriolo che con l’escamotage della metamorfosi e del travestimento mettono a nudo le meschinità del genere umano. Molti staranno già attendendo il momento del confronto tra i due pittori, ma si chiede loro scusa fin da ora poiché chi scrive ha deciso di deluderli. Benché vi siano affinità evidenti, il gioco dei rimandi iconografici tra le tele del belga e quelle del laghée, per quanto suadente, sarebbe stucchevole e, soprattutto, poco proficuo per comprendere lo spirito col quale sono state create. Un’ipotetica ricerca dei precedenti figurativi ci porterebbe sicuramente a citare il Brueghel della Lotta tra Carnevale e Quaresima, vicino nel sentire alle affollate feste paesane di Vitali; di sapore apertamente arcimboldesco sono il Cuoco vestito da pollo e il Pollo vestito da cuoco, praticamente indistinguibili e intercambiabili, e certi volti composti da ritagli di giornale dipinti, alla maniera del pittore milanese vissuto tra le corti imperiali di Vienna e Praga. Gli arzilli e simpatici scheletri che compaiono in Carnevale alla fine (ma anche nella straordinaria Vetrina del tempo dipinta trent’anni prima, sebbene non del tutto pertinente con il soggetto qui trattato) sembrano parlare lo stesso dialetto delle sorprendenti e quanto mai vivaci Scene di scheletri viventi dipinte all’inizio dell’Ottocento per la chiesa di Santa Grata a Bergamo da Paolo Vincenzo Bonomini.
Le Maschere (Giancarlo Vitali)Il gioco di specchi potrebbe continuare ancora a lungo, ma ci porterebbe poco lontano. Meglio ripartire da un quadro tanto celebre quanto inatteso per la totale assenza di legami stilistici diretti con Vitali, ma dal quale discende tanta pittura del Novecento e che, sotterraneamente, può aiutarci a svelare alcuni arcani. Nel Ritratto di Gertrude Stein, il volto dell’amica e mecenate di Picasso altro non è che una maschera, dipinta di getto e a memoria dopo una serie estenuante e improduttiva di sedute di fronte al modello. La stessa Stein, benché in un primo momento si fosse trovata spiazzata dalla soluzione di Picasso, ebbe a dire: “È la sola immagine di me che sia sempre me”. È esattamente il senso delle maschere di Vitali: i volti deformi e grotteschi sono e saranno sempre emblema dei caratteri umani indagati e spietatamente messi alla berlina dal pittore.
Le prime opere di Giancarlo Vitali che trattano tale soggetto risalgono alla metà degli anni Cinquanta, quando l’artista aveva circa venticinque anni: queste tele giovanili non presentano ancora la materia ricca e sontuosa che sarebbe presto divenuta tipica del suo lavoro e non hanno ancora la cattiveria e la forza graffiante che caratterizzano il suo segno, ma anticipano già, per quanto concerne l’iconografia, le Mezzelune, gli Stralunati, le Maschere di paese e le Mascherine smascherate dipinte e incise nei decenni seguenti. Le composizioni di questo periodo dimostrano in maniera evidente che l’artista aveva già le idee chiare e sentiva proprio, fin dagli esordi, un certo linguaggio espressivo peculiare e ben definito. Da quel momento fino a oggi Vitali non ha mai abbandonato il motivo, eviscerandolo da svariati punti di vista e tentando diverse soluzioni formali, senza di fatto mai abbandonarlo. La grande mostra tenutasi nel 2008 presso la Casa dei Costruttori di Lecco, allestita da Mario Botta e curata da Carlo Bertelli, dedicava una sezione a questo tema, selezionando alcune tra le opere più significative relative all’argomento e ponendole sullo stesso piano delle tipologie più note e considerate, quali i ritratti, le nature morte e le macellerie. L’infinita galleria di fisionomie alterate e trasfigurate attraverso un mai domo furore espressionista, che si svolge lungo il lento scorrere di ben sei decenni, è solo apparentemente un catalogo dei caratteri e dei vizi del paese al quale Vitali è sempre rimasto fedelmente abbarbicato, ma ha in realtà un respiro molto più ampio, una valenza universale e ha la capacità di calarsi nel profondo dell’animo umano, svelandolo senza pudore. Lo diceva bene Alberto Longatti: “La presunta derivazione nell’ispirazione originaria dagli abitanti del luogo lacustre, alterata peraltro da una visione distonica della realtà e sconvolta nella rappresentazione da una foga distorsiva espressionista, finisce con il venir cancellata e sostituita da qualcosa d’altro, che lievita e si espande in una sorta di rituale, pensosa, drammatica mascherata collettiva”.
Impossibile citare una per una le tele, i disegni e le incisioni che afferiscono a questa tipologia. Ci si limiterà a presentare tre esempi emblematici. Il primo risale a quasi mezzo secolo fa, Millenovecentosessantanove, le mani sulla luna, e mentre gli Americani portavano il primo uomo sulla luna Vitali canzonava le piccolezze di chi continuava a tribolare sulla Terra, ingannandosi nel vano inseguimento di chimere irraggiungibili. Lo descrive mirabilmente Marco Vallora e vale la pena di prendere in prestito le sue parole: “Un festoso albero della cuccagna al centro, intorno il lago melmoso della folla, vecchiette ubriache, nasoni alla Daumier, cotillons, cilindri: cappellini, copricapi ad imbuto, maschere, bandiere, balconi pavesati, alberi incolleriti che fremono come fiammelle e la splendida espressione schifata di Tommaso Grossi, che si scolla dal marmo del suo monumento, per guardare all’in su quei terribili scocciatori che scalano la vetta della cuccagna e vanno a irritare con dita grifagne la luna itterica di rabbia, così dannatamente a portata di mano e soprusi, che vulnerata si ritrae, quasi una zitella urtata in sacrestia da una barzelletta troppo ardita”.
Le Maschere (Giancarlo Vitali)Vitali mette la maschera all’intero paese che diventa simbolo dell’umanità tutta, ma è un primato di cui andare poco fieri perché la piazza affollata sembra un campionario di illusioni e follie di ogni specie.
Giovanni Testori ha voluto bene a Vitali e, tra i primi, ne ha capito la grandezza. Il pittore lo ha ricambiato con ritratti di strepitosa fattura. Il più noto, senza dubbio, è quello con la sciarpa rossa, ma a noi ora interessa quello con lo scrittore seduto in primo piano e alle sue spalle, sopra una sorta di palcoscenico, maschere fortemente caricaturali che evocano i personaggi più arditi e improbabili delle sue pièces teatrali, venuti a interrogarlo e a chiedergli conto di tanta crudeltà. Sembrano voler sapere per quale ragione sia toccato loro un destino tanto gramo e perché siano nati così bislacchi e sbilenchi, indubbiamente tragici ma senza l’aura sublime dei protagonisti shakespeariani. Il loro creatore, però, se ne sta assorto nei suoi pensieri, con l’immancabile camicia bianca, e li ignora; del resto rimanere inascoltati è sorte comune dei poveri cristi di ogni tempo.
Nel 1998, a Milano, si assistette a un fenomeno curioso. L’arrivo da Cracovia della Dama con l’Ermellino di Leonardo generò un’isteria collettiva che fino a quel momento era consueta solo per pop star della canzone e divi dello sport. Un chilometro di coda davanti alla Pinacoteca di Brera non si era mai visto; si racconta che al centralino delle prenotazioni arrivassero telefonate surreali di signore bene che volevano prenotarsi chiedendo testualmente di poter vedere ‘La sciura con la pelliccia’. Nei salotti buoni era diventato argomento obbligatorio di conversazione. Giancarlo Vitali, neanche a dirlo, non si mise in coda. Rimase a Bellano ma trovò il modo di dire la sua, alla sua maniera, con colori e pennello. Attorno al presunto ritratto di Cecilia Gallerani, ritagliato da un manuale di storia dell’arte e incollato sulla tela, si accalcano le sue maschere più tipiche, dallo sguardo ebete, ammassate come pecore. Non capiscono nulla, lo si può giurare, ma partecipano a un rito di massa al quale, senza nemmeno sapere perché, non possono sottrarsi. Il gruppo di sinistra richiama una tela dipinta dal Maestro nel 1977, Il gruppo degli intellettuali, saccenti e ignoranti, tronfi e idioti come sanno essere solo coloro che si sono autoproclamati depositari di un sapere vuoto e insulso. Sarebbe stato difficile rappresentare con altri strumenti quanto avvenne a Brera tra l’autunno e l’inverno del 1998 e un documentario, probabilmente, non avrebbe restituito lo spirito dell’evento con altrettanta fedeltà. Come nel Ritratto di Gertrude Stein la maschera sa trasmettere il senso del vero.