Il doppio viaggio di un uomo qualunque 9 Maggio 2011 – Posted in: Archivio

La storia di un incontro fatale e di una salvezza. Potrebbe essere questa la chiave di lettura di C’è Posta per Lei, racconto verità, vergato su una carta da lettera in forma di missiva e indirizzato al destinatario della nostra ammirazione, a colui ch’è troppo in alto per essere raggiunto, a colui che, nonostante reiterati tentativi, alla fine rinunciamo a conoscere di persona per paura di intaccare la sacralità della nostra proiezione. Racconto/lettera che è il diario di una solitudine e di una liberazione. C’è un uomo avanti con gli anni con una famiglia ormai svezzata, un lavoro normale, trascorso fra le strette maglie di un istituto di credito, una vita misurata, spesa a tenere in piedi un’economia senza possibilità di spreco. E c’è il suo sogno, la sua privata e non condivisibile via di salvezza, la sua via di fuga: il rapporto esclusivo con un’opera d’arte e il suo autore, Giancarlo Vitali, appunto. Un uomo qualunque che scrive al pittore una lunga lettera di ringraziamento, anche se il secondo ignora la sua esistenza.

Andrea Vitali costruisce un racconto in prima persona con un’intenzione narrativa che nella sua natura profonda sembra riferirsi alla Mitteleuropa letteraria. E lo fa attraverso una sorta di monologo interiore espresso, in un continuo, abile gioco di contaminazione stilistica, in una lingua alto/bassa che ora richiama una prosa poetica e finemente introspettiva “Non amo particolarmente il buio della notte e i sogni, quando il sonno si fa disturbare dai ricordi del passato. Nemmeno la prima luce del mattino che ci tira fuori dalla tana buia dell’oblio e ci rimette in campo.”; ora un realismo spontaneo e dialettale che sembra stralciato da un giornale per cuori solitari anni ’50: “I figli sono una benedizione del cielo e senza di loro io non l’avrei mai scoperta. Il merito va al mio quarto, l’ultimo. Di nome fa Emilio, in onore e a memoria di una specie di zio.” Ma lo scrittore segue una strada autonoma, ne percorre il tratto, accompagnando il protagonista in una riflessione che spesso diventa divertita, perfino autoironica, portando così il racconto su un piano di assoluta levità, in un clima umanissimo e antidrammatico. L’amore fatale scocca un giorno qualunque quando il protagonista entra in un bar, sconvolto dall’eventualità dell’arrivo di un quinto figlio: “Fu col sonoro vociare sgraziato che saturava l’ambiente che, appesa a una parete con delle puntine rosse, vidi una pagina di giornale. Mi colpì l’immagine che orientava il testo di supporto. Dimenticai il cognac.” – ciò che colpisce il nostro è un dipinto del pittore Giancarlo Vitali, l’Imbianchino pubblicato su un giornale – “Guardandolo, e col pensiero fisso al quinto, potenziale figlio in arrivo, sentii che avrei potuto farcela: bastava applicare alla vita la forza, la volontà, la caparbietà tutta compresa nel braccio dell’imbianchino che, pur con fatica e nonostante gli schizzi di biacca, porterà a termine il lavoro.”

La forza di quest’incontro lo proietterà in un mondo suo, in un ambito personalissimo, esclusivo, che gli si svelerà all’improvviso, come in un’illuminazione e che non solo lo aiuterà in quel frangente ma che gli sarà al fianco nel corso della sua restante esistenza, soccorrendolo anche nel presente visto che, appena venuto in pensione si scopre vittima di una malattia ‘brutta’ che affronta con serena disattenzione, proprio grazie a questo suo benefico rifugio. In questo volume il testo di Andrea Vitali esce col taglio del protagonista ma le opere di Giancarlo rilanciano spiazzando e provocando il lettore. Da una parte una lettera/racconto ch’è anche una dedica e un atto di imperitura ammirazione all’opera del maestro; dall’altra il destinatario, il maestro, appunto, che apparentemente non sembra raccogliere il testimone spostando su un altro piano il proprio lavoro. Quasi imbarazzato da una simile responsabilità si mette a giochicchiare, con preziosa, a tratti autoreferenziale abilità, sciorinando una messe di ‘proiezioni in autoritratto’ che disegna su buste di lettere davvero ricevute e che lo descrivono ora severo, ora egoico, ora provocatorio, ora pensoso, ora perfino dispettoso come un fanciullo, quasi avesse in animo di svelarci una sua parte imprevista, che abbassi l’attesa dell’altro, del mittente della lettera. E poi si spinge oltre e si inventa deliziose scenette di genere, spesso ispirate da un semplice gioco di parole, che diventano pura evasione segnica.

Ma sulla busta della lettera dell’anonimo impiegato di banca, consegnatagli dall’amico Andrea, no. Su quella busta non disegnerà niente. Perché quella lettera l’avrà scorsa e riscorsa sentendo, certo, forte, la gratitudine verso un’anima che gli è stata davvero devota senza nulla pretendere.