Carlo Cracco 28 Aprile 2010 – Posted in: FOOD

Carlo CraccoLa via per il ristorante è una discesa nel centro di Milano. Per una comoda scala fino alla doppia sala divisa da un passetto sospeso. Una hall che ricorda nelle linee e nei colori le prime decadi dell’altro secolo. La luce diffusa, quasi sospesa, accresce l’impressione di un luogo protetto che vive in una totale discrezione di scambi e consigli.

Spazio razionale dove s’istruisce il quotidiano processo di sviluppo, teso a riequilibrare o estremizzare i contrasti esterni.

Il dominio delle pulsioni, la tensione del controllo contribuisce a renderle palpabili come una corrente sotterranea che faccia tremare leggermente il pavimento sotto i piedi.

Da Cracco, la lotta trova spazio dentro un timpano neoclassico.

Basterebbe soffermarsi a metà scala sotto l’opera in ferro Omaggio ai boscimani di Salvatore Cuschera, nata con e per la parete a cui è appesa.

Un viaggio nel bush in compagnia di micidiali cacciatori e di spiriti, reso come una sorta di mappa che, da qualche parte, conduce a dei simbolici punti d’acqua. Acqua di trasformazione, magia che si dispiega sempre in altre forme.

Intorno, intanto, corre una bugnato liscio, continuo. L’architetto ha immaginato che i pensieri degli ospiti dovessero procedere con moto circolare, in cerchi concentrici a partire dal contenuto del piatto per, poi, salire e restare sospesi, circuitando come navicelle volanti.

Ma che genere di cucina abbiamo di fronte?

Una cucina che si affida alla tecnica e al rigore; che fonde sapori, lasciandoli uguali a se stessi in bocca e che, incompatibili, si ritrovano; che rende omaggio al proprio maestro, con l’enfasi giusta, citandolo nell’opera che ne rappresenta meglio l’intelligenza fulminea e sobria. Quella cotoletta alla Gualtiero Marchesi, servita in cubetti, compromesso ideale tra interno e panatura.

Due affermazioni servono, tuttavia, a precisare al di là di ogni suggestione la direzione scelta: «Il fine – mi ricorda Cracco – è personale, narcisistico». La considero una risposta talmente seria da suonare presuntuosa.

Un esito che appartiene a tutti i virtuosi e che solo la maturità del gesto permette di precisare. Narciso scompare nella sua immagine, vi affonda per amore. La stessa cosa succede a chiunque imbocchi seriamente la via della conoscenza.

E il mito insegna che tutte le figure rappresentano delle tappe evolutive, il cui significato si ripresenta in vari momenti della vita.

L’altro punto di vista compare in uno dei libri di Cracco e suona così:

«Ogni cosa sarebbe oro se avesse il tempo di diventarlo». Solo l’arte può pretendere di eguagliare il tempo, di trasformare le cose in oro. Ci riesce, perché riflette continuamente intorno ad esso, alla sua ineluttabilità.

E questa è l’equazione per mutare il cibo in alimento, in soffio per la mente.

Per inseguire il tempo che ci insegue e fissarne l’ombra nel piatto ci sono due modi: o descriverlo nel suo movimento o gelarlo nel mistero di una forma assoluta.

Carlo Cracco, mi sembra, che batta le due strade. Penso a quelle composizioni di verdure che, a prima vista, esplodono, ma che, in realtà propongono una struttura: piatti disincarnati (in senso letterale e metaforico) come l’anima metallica delle sculture che serve da appoggio alla creta.

Il movimento permette allo sguardo di intuire meglio il volume, l’energia riposta nelle forme (fagiolino, carota…) Il risultato prima della forchetta è una piccola danza, frutto di ritmo e abbandono, con un pizzico di malinconia.

Perseguendo, invece, la forma ideale, Cracco si è concentrato sull’uovo.

Il suo libro La quadratura dell’uovo è uno di quegli scherzi che servono a rimettere a fuoco il mondo che ci circonda.

Intanto, si scopre quanto sia strana, ambivalente, la geometria dell’uovo. Una sfera avrebbe risolto «il problema del minimo ingombro a fronte della massima capacità» ma la natura ha pensato piuttosto di facilitare il travaglio, affusolando un lato anche se, spiegano i dotti, la forma a punta è intrinsecamente rischiosa!

D’altra parte, non sarà certo un caso se il suono si raccolga e promani da due organi ovoidali come l’orecchio e la bocca o che con quella forma sono fatte le casse armoniche di molti strumenti a corda.

Per Cracco tanta meraviglia iniziale si trasferisce tale e quale al momento di cucinarlo, poiché «come un vecchio attore consumato, l’uovo cambia d’abito e consistenza in pochissimi minuti di cottura».

E qui scatta la capacità speculativa di certi cuochi. La “disponibilità” dell’uovo va incoraggiata, ma per fissarne una volta per tutte la baldanza. Ecco allora che l’attore si consuma in una marinatura a base di sale grosso affumicato e zucchero semolato, perché reciti, dando il meglio di sé con asparagi bianchi e mandorle fresche o con frittata bianca di orzo al pepe di Sichuan o, ancora, insieme al nero di seppia e ficoidea glacialis.

Da questa sorta di bottarga, di quintessenza del tuorlo, una volta essiccata e spianata, nasce una pasta veramente all’uovo, di nome e di fatto, solo uovo, niente farina.

Dalla forma siamo così arrivati (tornati) al contenuto, chiudendo il cerchio di un’esperienza che all’inizio poteva apparire addirittura un capriccio, un gesto solo intellettuale.

Una cosa è certa: nel lavoro di questo chef, l’idea sembra stazionare in un altrove prossimo e remoto, abbastanza vicino da sedurre la materia e sufficientemente distaccato da inorgoglire fino all’intuizione.

L’uovo c’era, esattamente come la marinatura. Cracco li ha usati per un nuovo scopo che non contraddice il significato originario, ma lo ampia. Tutto ciò serve a precisare il suo modo di intendere la cucina che guarda alla ricerca senza estremizzare i concetti, seguendo la via mediana dell’immaginazione.

«Che senso ha continuare a contrapporre la tradizione alla creatività?

L’una – aggiunge – non esclude l’altra. A me interessa molto di più la versatilità che non l’unicità».

Capisco, allora, l’altra sua risposta sul futuro, su quello che farà un giorno.

Il futuro, lasciando passare tutto il tempo necessario, sarà per un gioco di specchi, un ritorno indietro. Celebrazione mai, scoperta sì.

Nicola Dal Falco