La finocchiona di Niccolò Machiavelli 6 Maggio 2010 – Posted in: FOOD

machiavelli“Sicuramente studiando le combinazioni si arriverebbe a sapere perché si vince, perché si perde, perché il barbiere di Sant’Andrea è capace di battere Niccolò Machiavelli, anche se il signor segretario persino quando mangia fette di finocchiona o beve vino Trebbiano allungato con l’acqua lo fa come se stesse pensando all’origine e alla finalità della finocchiona nel mondo e per quali ragioni oggettive preferisce i vini Trebbiani a quelli delle Cinque Terre, a dispetto dei genovesi.”

È l’inizio di “O Cesare o nulla”, romanzo di Manuel Vázquez Montalbán ambientato nell’Italia dei Borgia, in un epoca in cui la politica si andava separando dalla morale. L’argomento stimolava il buon Machiavelli a riflettere sulla laicità della politica come forma della modernità. Forzatura letteraria il riferimento alla finocchiona all’alba del ’500? Tutt’altro, perché le origini di questo caposaldo della norcineria del Chianti e di tutta la Toscana, affondano nel più remoto Medioevo, quando le abilità, le possibilità economiche e le conoscenze tecnologiche dei contadini erano piuttosto rudimentali e pratiche. Per poter vendere i propri salami a Firenze e a Siena, i campagnoli del Chianti dissimulavano il deterioramento delle carni, aspergendole non tanto con del pepe, che era merce costosa e rara, quanto con generose quantità di semi del finocchio, pianta selvatica disponibile un po’ dovunque in collina. Neppure il riferimento di Montalbán a Niccolò Machiavelli è del tutto casuale. Sappiamo infatti che dal 1513 il grande letterato si ritirò nei suoi poderi a Sant’Andrea in Chianti ed egli stesso ci informa che soleva “ingaglioffirsi” (bere e giocare) all’osteria del borgo coi villani e i bottegai di Sant’Andrea.

La finocchiona lo eccitava e il Trebbiano spegneva la sete fornendogli la quiete e la lucidità per guardare le cose. Dopo l’osteria poteva ritirarsi nel suo studio dove “non sento per quattro ore di tempo alcuna noia, dimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte”. Secondo la secolare tradizione, la finocchiona si prepara con carni di maiali molto magri, di cui si usano per metà le rifilature delle cosce e per l’altra metà il grasso di guancia e quello duro di pancia. L’impasto si macina a grana media e si concia con sale, pepe, semi di finocchio, aglio e vino. Il composto, una volta insaccato in budello “cieco di manzo” o bondeana, viene legato strettamente con lo spago e lasciato maturare per una settimana in un ambiente riscaldato ma ventilato. Solo dopo una stagionatura di almeno cinque mesi, in cantina o in altro luogo adatto, la finocchiona si può gustare tagliata un po’ spessa, sposata al pane senza sale.

Quasi tutte le macellerie del Chianti sono in grado di darvi prodotti di grande pregio, finezza e perfetta stagionatura. Diffidate dalle “sbriciolone” che trovate a prezzi stracciati al supermercato, perché si tratta molto spesso di volgari imitazioni di carattere industriale, fatte con carni mediocri e corrette con additivi dequalificanti. In norcineria scegliete sempre le finocchione più grosse e toccatele per verificare che siano sode e consistenti ma non morbide. Anche il colore è sintomo di una lenta e progressiva stagionatura: che sia rosso scuro, né bruno né rosso acceso. Mentre gli effluvi del finocchio saranno molto evidenti, l’aglio al naso non si dovrà quasi percepire. Come all’olfatto, così in bocca, con in più una nota di dolcezza e un gusto pieno e corposo.

Machiavelli forse ragionava sul perché un salume come la finocchiona possa essere abbinato anche a un vino bianco come il Trebbiano Toscano piuttosto che a un rosso corposo, che pare fatto ad arte per gli insaccati e i prosciutti. È presto detto, perchè anche il peggiore dei vini – difficile procurarselo quassù… – diventa, se non buono, almeno bevibile, sicuramente morbido e rotondo, quando incontra in bocca il gusto del finocchio. Vino bianco o rosso, corposo o annacquato, l’anetolo (un olio essenziale di cui son ricchi i semi del finocchio) rende un vino uguale a un altro coprendone i difetti con un’intensità persistente. Lo sapevano bene gli osti e i venditori di vino di un tempo, che offrivano all’incauto acquirente proprio una fetta di finocchiona per ingannarne le capacità sensoriali prima dell’assaggio e vendere anche il peggior vino della bottega. È da questa ribalda consuetudine che deriva il termine “infinocchiare”. Machiavellici più di Ser Niccolò, gli osti!