L’odore di campagna 24 Febbraio 2012 – Posted in: ART, BOOKS

Dal 6° titolo della collana iVitali: Pro-memoria la prefazione di Antonio Bozzo.

Pro-memoria (Andrea Vitali, Giancarlo Vitali)

Giancarlo Vitali

Ci sono i nomi, prima di tutto. E come sempre, nelle narrazioni di Andrea Vitali, fanno baluginare un mondo, così che l’onomastica diventa, aldilà dell’intreccio, il viatico per pensieri ulteriori, ricami che si aggiungono all’ordito. Lidovina, Vinci, Felicino, Perlina, Silvestro, Eribice-Bice, Arcangela, Ottaviano. Ci sono i cognomi: Sedanelli, Piedivico, Maltolti, Anzibene, Stancabassi. Anime e corpi che il sole trafigge nella Bassa, tra Cremona e Brescia. In un periodo di tempo che va dagli anni Trenta al 1974, inglobando la guerra (che resta sullo sfondo, come una delle tante occorrenze della vita, né peggio né meglio di altre) e la rinascita italiana del boom. Dall’ “aratro che traccia il solco ma è la spada che lo difende” alla Lambretta, e dopo. Le esistenze toccate da Vitali, che ne illumina le svolte, vivono una vita comune e speciale: come succede alle vite che si trasformano in letteratura, e lasciano il percorso collettivo per diventare esemplari. Il fragile Felicino, nato da un parto difficile, figlio del veterinario che castra i cavalli e punzona le vacche, si porterà dietro per sempre ­- immaginiamo, il racconto lo lascia, appunto, nel 1974 – la sua gracilità, resa ancora più inattuale (nell’Italia che cresce, lavora, cafoneggia) dalla passione per lo studio, per il lavoro senza clamori e ambizioni. Felicino si rispecchia, ma è uno specchio deformante, nel fratello o fratellastro (il padre è un altro) Silvestro, tempra forte, uomo efficiente e sbrigativo, al passo con i tempi. In questo confronto che non diventa scontro sta il bandolo del racconto.

Pro-memoria (Andrea Vitali, Giancarlo Vitali)

Giancarlo Vitali

Le pennellate di Vitali ben si sposano all’arte di Giancarlo Vitali con i suoi “quadri” di campagna. Il tono è quello della storia raccontata in treno: succedono molte cose, c’è chi muore schiantandosi con la moto contro un pioppo (“lasciando questo mondo circonfuso da una delle prime nebbie di stagione”), chi lotta contro la tisi, chi fa figli, chi investe e guadagna denaro senza riguardi agli affetti: pecunia non olet. Sono pennellate che ben lasciano traccia anche le descrizioni dei pensieri morali che attraversano le menti dei protagonisti. In un mondo dove il prevosto fa da psicoanalista, e la dicotomia città-campagna è un motore del congegno narrativo, le decisioni vanno prese senza ambasce. Niente rovelli alla Dostoevskij, neanche l’ombra delle mezze tinte o del “color tortora” di Cechov, che appesantisce il cuore. Vitali ritaglia figure e figurine con la felicità di chi sa raccontare. Non ci sono colpi di scena, plot da indovinare, deviazioni di rotta, esercizi di stile. La storia è lì, cruda e nuda davanti agli occhi. Vite precarie (un olmo può trovarsi davanti alla strada di ognuno), amori nei binari, consuetudini di un presepe umano che in fondo resta uguale a se stesso, mentre cambia il mondo. Le vite perdute di Pasolini, per il quale il panorama cambiava anche internamente, non sono queste di Vitali e scusate il bisticcio tra vita e Vitali: ma avrà qualche importanza se l’esistenza, anche nella sua piccolezza, è la specialità dell’autore.

Felicino, che deve subire le ambiziose e piccolo-borghesi paturnie della moglie, avrà sempre nelle narici, anche quando fatica nello studio legale Stancabassi di Cremona, l’odore della campagna. Gli arriva dalla cascina dove è stato Felicino-felice, per alcuni tratti della vita. Portava a cavalluccio il fratello, tra erbe e galline, prima che il fratello si trasformasse in un omone. Riposava nel granoturco, guardava i cieli mutevoli, nelle lontane estati, quando lasciava il collegio per tornare a casa. La campagna Felicino se l’è sempre portata dietro, suo fratello Silvestro invece l’ha sfruttata, vivendoci, banalizzandola come un’azienda qualsiasi, mentre ruggiva l’Italia della crescita.Vitali non prende partito, racconta. Spia le invidie sociali, le mode (la villetta tra Bordighera e Sanremo, la casa di montagna sulla Presolana), le prudenze di un ceto che oggi non c’è più, colpito a morte non solo dalla crisi, ma dalla perdita di centralità. Tuttavia questo racconto non va letto come un trattato di sociologia, perderebbe la sua incisività. E invece lasciamoci portare a castrare cavalli con il veterinario, viviamo gli sbocchi di sangue di Lidovina (ma forse è mancanza d’amore, non bacillo di Koch), i fastidi di Bice, le fortune di Silvestro. Godiamoci la Bassa e le sue trasformazioni, strade e fumi, prime nebbie e antichi fuochi nelle cascine. L’artista Giancarlo Vitali popola la campagna di case di legno, gatti, uccelli, figure arcaiche a cercare consolazione. Cerchiamo Felicino Piedivico: potrebbe essere ancora vivo tra di noi, avvocato in pensione, a Cremona, con la sua Bice. Questo Vitali non ce lo conferma, sta alla nostra libertà di lettori immaginarlo.

Approfittiamone.

Antonio Bozzo