Nella sagrestia dell’incisore 27 Ottobre 2011 – Posted in: ART

Contributo di Michele Tavola pubblicato nel catalogo Giancarlo Vitali. 156 incisioni originali.

Una premessa noiosa

Giancarlo Vitali. 156 incisioni originali

Giancarlo Vitali
La sagrestia dell’incisore

Giancarlo Vitali è tra i grandi incisori dei nostri tempi. La grafica non è arte minore. Una strana forma di feticismo per il pezzo unico attanaglia buona parte del mercato, del collezionismo e della critica. Di conseguenza, specialmente in italia, la grafica d’arte viene troppo spesso considerata di secondaria importanza. ci viene da sorridere quando leggiamo le graduatorie stilate da intellettuali e critici del XVI e del XVII secolo, che classificavano l’arte in base ai temi rappresentati. Si affermava, autorevolmente, che la pittura sacra fosse più dignitosa di quella di paesaggio o che un soggetto mitologico fosse a priori migliore di una natura morta. Oggi nessun mercante, nessun collezionista, nessun critico sarebbe così folle da preferire un brutto quadro ispirato alla mitologia greca o alla storia romana eseguito da un oscuro imbrattatele a una bella scena di genere di caravaggio o di Giacomo Ceruti. Eppure si afferma, autorevolmente, che ci sono tecniche e supporti più rispettabili di altri. Critici di grido proclamano a gran voce che il più brutto dei quadri sia meglio della più bella delle stampe; mercato e collezionismo si comportano di conseguenza. Gli unici a non avere mai dato credito a un pensiero così balzano sono stati i grandi artisti. Picasso ha inciso migliaia di lastre, Matisse ha amato profondamente i propri libri illustrati con opere grafiche, Chagall, Rouault, Miró, Dubuffet e molti altri loro colleghi hanno accantonato la pittura per mesi o addirittura per anni per dedicarsi totalmente alla creazione di stampe. Anche Giancarlo Vitali non ha mai fatto distinzione tra una tela e una lastra di rame, decidendo di aggredire l’una o l’altra solo ed esclusivamente in base alle proprie esigenze espressive. La sua intensa produzione è fatta di dipinti, disegni e incisioni e non si può avere la presunzione di comprender e l’arte di Vitali se non la si analizza organicamente, con uno sguardo laico che non faccia distinzioni tra tecniche maggiori e minori. Si potrà così scoprire che il corpus grafico occupa un ruolo centrale nel suo percorso artistico e molti fogli sono di qualità indiscutibilmente eccelsa.

Nella sagrestia dell’incisore

Giancarlo Vitali. 156 incisioni originali

Giancarlo Vitali
Autoritratto

Si deve però aggiungere che alcuni incisori si sono crogiolati in questa insensata ghettizzazione, contribuendo a costruirsi una prigione dorata fatta di cliché rigidi e regole ferree. Lo ha stigmatizzato bene Giovanni Testori in un illuminante testo del 1985, distinguendo tra coloro che entrano “nell’ordine degli incisori” con dogmatico e fideistico rispetto della “regola” e tra coloro che entrano nello stesso ordine come si entra in un “ribollente e vischioso bordello”, con l’intenzione precisa di “scompigliare la sacra e santa regola”. Se ci fossero mai stati dubbi, testori colloca “il grande Bellanasco”, come era solito definire Vitali, nel secondo gruppo, “quello dei desperados, quello dei barricaderi, o dinamitardi che siano”, sempre tesi alla ricerca di nuove strade e alla sperimentazione di nuove forme, mai sazi e mai appagati dalle convenzioni. Nel grembo delle tecniche più classiche, Giancarlo Vitali si muove con libertà e disinvoltura, senza indossare “i panni reali et curiali” cari a Machiavelli quando lasciava le quotidiane occupazioni materiali per dedicarsi con rispetto quasi sacrale allo studio. Si trova più a suo agio, citando sempre Machiavelli, con la “veste cotidiana”, quella semplice e dimessa di tutti i giorni e, a differenza dello scrittore fiorentino che idealmente entra “nelle antique corti delli antiqui huomini”, il grande Bellanasco, quando incide, varca la soglia delle osterie e delle botteghe di macellai e imbianchini. Acquaforte, acquatinta, vernice molle e puntasecca si mescolano e si sovrappongono sulla lastra con una sapienza istintiva e con una furia anarchica. Vitali si addentra nella selva delle tecniche incisorie col fiuto ferino del predatore, graffia e abrade il metallo per tentativi, alla ricerca del segno giusto, con gesti innati e spontanei. Impossibile riassumere il suo modo di lavorare in un protocollo e, in ultima analisi, inutile, poiché per il nostro incisore, come per ogni artista che meriti di essere definito tale, la tecnica è solo un mezzo, mai un fine. Queste opere così alchemiche, quasi magiche, nascono in un angolo del suo studio, un Sancta sanctorum dove vengono custoditi e usati gli acidi, le lastre di rame, i bulini e i raschietti. Una stanza modesta e in perenne disordine, dove campeggia una serie di cristi lignei, austeri e sofferenti, che vegliano con sguardo severo sul lavoro dell’artista. Un luogo d’elezione che il Giancarlo, come lo chiamano in paese, con l’immancabile articolo determinativo che caratterizza la parlata lombarda, ha ribattezzato La sagrestia dell’incisore, ritraendola in uno dei fogli più evocativi ed emblematici della collezione.

Nel museo quotidiano

Coraggio o ingenuità, non saprei dirlo. certo è che il ciclo Il “mio” museo quotidiano, inciso nel 1985, lascia lo spettatore tra l’ammirato e l’attonito, non solo per la qualità dei fogli. Il Vitali che racconta la vita del paese e dei suoi abitanti più umili, che descrive la fatica dei pescatori e che immortala file di agoni, che si lascia ispirare dalla semplicità e dalla schiettezza della quotidianità, in questo singolare frangente, al contrario di quanto detto prima, come Machiavelli entra “nelle antique corti delli antiqui huomini”, dei grandi pittori del passato per la precisione, li interroga e loro gli rispondono. Quello dell’“omaggio” può essere considerato un vero e proprio genere, nel quale l’artista si mette a confronto con i capolavori della storia, solitamente cercando di tradurli nel proprio linguaggio figurativo. Il Giancarlo, chiuso nella sagrestia dell’incisore, più che tributare un omaggio si lascia andare a una vera e propria dichiarazione d’amore sfacciata e naïf, e pertanto sincera. Cita i maestri prediletti, trascrive sulla lastra i dettagli preferiti, racconta la sua intima e personale storia della pittura dedicando una cartella intera al proprio amore per l’arte. I Girasoli di Van Gogh, il Bue squartato di Rembrandt, Los borracios di Velasquez. Vitali ci dice da dove viene, confessa candidamente quali immagini gli balenano nella mente e davanti agli occhi quando dipinge. E, talvolta, alle sue amate offre piccoli regali: alla Canestra del Caravaggio vengono donate due melagrane e alcune castagne, probabilmente dei boschi sopra Bellano; la vecchia mendicante che si staglia in primo piano nella Presentazione di Maria al Tempio, alla quale Tiziano aveva già concesso una cesta piena di uova, viene gratificata con due polli ai quali è appena stato tirato il collo; il cielo livido e minaccioso di toledo, dipinto da El Greco nel 1610, per una volta si trova a sovrastare la vecchia contrada di Bellano nominata Pradegiana. In qualche caso, però, come un corteggiatore maldestro e poco avvezzo a sedurre signore di alto lignaggio, Vitali si trova a giocare con l’ironia, cosa da non farsi assolutamente mai nel genere dell’omaggio, che altrimenti diventerebbe parodia. Ed ecco che, senza scadere nel ridicolo e con il consueto affetto tributato ai suoi amori, il Giancarlo disegna cartelli stradali segnaletici alle spalle dei ciechi di Bruegel, nel vano tentativo di evitare loro l’inesorabile caduta nell’abisso. Ma è nel Teatrino che si concede il massimo della confidenza e, con un’invenzione a tratti spericolata e a tratti geniale, accosta i propri figli Paola, Sara e Velasco all’Infanta Margarita Teresa d’Asburgo, al piccolo Manuel Osorio Manrique de Zuñiga di Goya, al Piffero di reggimento di Manet e a Paulo in veste di Pierrot di Picasso.

Nella carne, nel legno, nella roccia

Giancarlo Vitali. 156 incisioni originali

Giancarlo Vitali
Guscio

“Ematico splendore, pustola di grumi, coralli, garofani, rubini, vergogna svergognata dall’impossibilità a ribellarti, là, nel mattatoio dell’ultimo muggito”, sono ancora parole di Giovanni Testori, tratte da una delle poesie scritte nel 1984 per il Trittico del toro, che rappresenta una delle vette dell’arte di Giancarlo Vitali. L’animale squartato, la carcassa torturata dal coltello, la carne macellata. Il sangue che gronda, il trionfo della morte. Rosso in tutte le sue sfumature, striature violacee, cromatismo violento. Quando il grande Bellanasco dipinge la carne, soggetto con il quale riesce a manifestare in maniera più drammatica e sentitamente esistenziale la sua visione del mondo, è un’esplosione di colore e materia.
Vitali, però, affronta frequentemente questo tema anche nell’incisione, dove domina il bianco e nero e dove non può contare sulla densità del pigmento. Eppure basta guardare uno qualsiasi dei fogli raffiguranti la carne per rendersi conto che la forza dell’immagine e la potenza espressiva non sono in alcun modo diminuite. La tensione formale è data tutta dal segno, dai neri profondi nati da morsure che per poco non hanno bruciato la lastra, dall’intrico di linee che si inseguono e si rincorrono fino a creare le sembianze di ciò che resta dell’animale. Segno e linea conferiscono alle forme lo stesso senso, comunicano allo spettatore la stessa intensità emotiva anche quando cambia il soggetto, anche quando l’autore sostituisce alla carne vecchi tronchi d’albero irrigiditi dal freddo o spezzati da un fulmine. La dimensione tragica rimane intatta anche in fogli quali Temporale o Autunno, del 1987, nei quali i rami rinsecchiti e mutilati si contorcono e si attorcigliano assumendo un aspetto inquietante. Ma è soprattutto quando Vitali si addentra nel cuore della montagna, tra concrezioni rocciose e ombre fossili, che trova le forme più pure, avvicinandosi in qualche caso al confine dell’astrazione. Per rendersene conto è sufficiente vedere fogli quali Geolunare, Luna e fossili e Rabdophilia longobardica, contenuti nella cartella del 1991 dal titolo Le forme del tempo, composta da undici incisioni create in omaggio ad Antonio Stoppani. E forse è qui, in questo mondo oscuro e sotterraneo, nell’alveo di una paleontologia fantastica e d’invenzione, solo parzialmente ispirata agli studi dell’abate Stoppani, che l’artista esperisce una ricerca formale del tutto libera e lascia correre la mano sulla lastra senza porsi limiti.