Il carretto passava 15 Maggio 2017 – Posted in: BOOKS

L’introduzione di Carlo Cambi a In viaggio con i gazzosai.

Il carretto passava e quell’uomo annunciava “ciambelline, bomboloni alla crema, al cioccolato”. Era alto, magrissimo, vestito di una canotta e di pantaloncini da fornaio con un berretto a bustina bianco in testa con la marca del lievito bene in vista; aveva baffetti rossicci, sandali francescani e un buco nei denti davanti. Per noi in quelle estati dell’Italia effervescente di nuova ricchezza era l’angelo della colazione. Passava pedalando quieto tra le ville ora Settecentesche ora Liberty di Porto Vecchio atteso da fantesche in grembiule di pizzo e crestina mandate in golosa ambasceria per soddisfare i palati di signori e signorine. A casa mia la tata non vestiva l’uniforme di servizio: era una di famiglia e sovente la Linda, la mia bisnonna, monumentale sia negli affetti sia nella corporatura, sia nella saggezza e nella sapienza gastronomica, la sostituiva nella compera della colazione. Io spiavo ancora nel letto quell’annuncio e sobbalzavo di golosa vitalità al sentire spandersi per il salone affacciato sul golfo il refolo di caffellatte. Non so dire perché d’inverno la colazione si dovesse fare nell’immensa cucina e ci fosse impedito di usare il salottino da pranzo, mentre d’estate a Castiglioncello si doveva usare la sala grande, quella che nei miei giochi fanciulli mi figuravo essere la cabina di comando di una grande nave con una rotta fissa: Capraia, perché dai finestroni di Villa Carla la si vedeva bene. Credo che fosse per avere più luce, più senso di libertà. E c’era anche un’altra trasgressione: si poteva fare colazione a qualsiasi ora. Il motivo lo avrei capito più avanti negli anni: Paolo e Carla i miei zii che erano allora poco più che ragazzi andavano a ballare la sera e si alzavano a sole alto. Ma queste son facezie familiari. Ciò che conta è che quando per la prima volta comparve l’uomo dei frati (dalle mie parti si chiamano così le ciambelle di pasta fritta perché ricordano la chierica: quella speciale tonsura cui si sottopongono i monaci in segno di umiltà) la mia estate cambiò sapore. Prima che ci fosse questa comodità del bombolone a domicilio, la colazione si faceva con i bensoni (sono delle specie di ciambelloni) che faceva la nonna, oppure con la schiaccia che si andava a comprare al forno. Mi piaceva il contrasto del salato con il dolce del caffellatte, mi ci avevano abituato con lo gnocco fritto avanzato che, detto tra noi, è una delizia. Ma il fatto è che tata Iole non sempre aveva voglia di salire fino in paese all’ora presta – come diceva lei – per comprare la schiaccia, ché semmai ci si andava dal fornaio durante il rito della spesa. Era la metà degli anni Sessanta e tra le forme di distribuzione tra le ville dei vacanzieri la più radicata era senza dubbio quella della Lia: una pesciaiola un po’ sguaiata che da un’Ape cabriolet faceva strabordare scorfani, alacce, gamberi, polpi, seppie, totani. Le donne di servizio abboccavano e compravano a dieci lire dalla Lia quello che scendendo giù da Fosco, il pescatore che aveva la barca attraccata ai bagni Salvadori, avrebbero potuto comprare a cinque. Ma c’erano da fare un centinaio di scalini e soprattutto si sarebbe concesso al personale di servizio di affacciarsi al mare fuori dall’orario del giorno libero. Un sacrilegio per le regole dell’Italia rampante! La Lia però aveva un difetto: non veniva mai alla stessa ora e nonostante si sgolasse gridando “Donne venite ce l’ho bello, ce l’ho fresco” andava spesso incontro a rifiuti perché arrivava quando nelle cucine si era già deciso il menu del pranzo, più spesso quello della sera perché già cominciava l’abitudine di “pigliare a mezzogiorno qualcosa sulla spiaggia” per non interrompere né il rito dell’abbronzatura, né i balocchi marinari dei bambini. E così capitava che le donne fossero già uscite per la spesa o che al posto del pesce si scegliesse di fare la carne. Anche perché nell’Italia di allora mettere la fettina in tavola tutti i giorni era sintomo di ricchezza e di ricchezza proteica!
Al contrario, l’uomo dei frati era puntuale come un orologio svizzero. Faceva sempre lo stesso giro, alla stessa ora e quasi fosse un accelerato del dolce aveva le sue stazioni: prima a “La Perla” (pensione molto gettonata dalla media borghesia) poi dagli Uzielli, dai Bitossi, poi alla pensione Belvedere, poi da noi che eravamo l’ultima villa prima della scalinata a mare e dunque quelli che godevano la “bellavista”, come nonno aveva principiato a chiamare questa casa che stava lì da trecento anni col suo portale in pietraforte che pare dorata e le colonnette di pietra serena.
Era così discreto, anche elegante e umilissimo nel gesto di portare, porgere e incassare, che alla fine si era deciso di confermargli le ordinazioni per tutta la settimana. La nonna gli metteva i soldi contati sotto il vaso di oleandri che spuntava dal cancello di servizio e lui lasciava un sacchettone di carta bianca con le nostre delizie. Se capitava qualche mattina alla consegna seguiva uno scambio veloce di chiacchiere, o gli si porgeva un caffè o un bicchiere d’acqua. Così l’avevo sentito parlare e m’ero stupito di sentirgli in bocca parole dolci come i suoi bomboloni, quasi liquide e al tempo stesso contenute. Non parlava come noi con le vocali aperte, la ‘c’ risucchiata e un certo sberleffo fin dalla pronuncia. Così avevo scoperto che era un profugo. Lo aveva detto la Linda. Profugo – che parola enorme quando si hanno poco più di sette anni! Mi aveva messo quasi paura. Non come quella che mi faceva la donna dei maiali. Era una vecchietta ringobbita e infagottata in panni che mi parevan sudici che passava a giorni alterni con dei gran bidoni malmessi su di un carretto spinto a mano. Faceva il giro delle pensioni a raccattare gli scarti alimentari (e chi dice che il riciclo è cosa d’oggi?) per dare da mangiare a certi maiali che pare avesse su per Spianate. A noi dicevano che, se non si stava buoni buoni, ci avrebbe messo anche a noi nei bidoni. Per questo la si temeva più della peste. Invece l’uomo dei frati era una nuvola di vaniglia e pareva un generale ussaro.
Il carretto passava e quell’uomo annunciava “ciambelline, bomboloni alla crema, al cioccolato”. Ma quell’uomo era un profugo. La nonna, che alla fine ci aveva fatto amicizia, mi aveva raccontato che lui si era salvato dal disastro del Vajont. Era venuta giù una montagna e aveva fatto esondare una diga che aveva provocato un’onda gigantesca; aveva travolto paesi, fatti tanti morti (oltre 900 dicono le cronache) e la casa a Longarone, nel Friuli Venezia Giulia dell’uomo dei frati, non c’era più. Posti lontani, quasi esotici, la grande onda, un evento mitologico e l’uomo dei frati ora pareva un eroe al cioccolato, un profugo che profuma di vaniglia. Nella fantasia di me bimbetto sul mare il secchiello era la diga ed io ci tiravo i sassi per fare l’effetto Vajont e l’happy ending era che giravo tra gli ombrelloni salmodiando “ciambelline, bomboloni…”. Che ne sapevo io della fatica, del dolore, della volontà di quell’uomo. Eppure dopo, troppi anni dopo, me ne sono ricordato per comprendere come si può risorgere pedalando, friggendo, distribuendo, sorridendo, per capire come la dignità di quella fatica che era letizia della nostra estate fosse per lui graffiata di mestizia, ma anche di orgogliosa affermazione.
Era la stessa fatica che faceva il Nano. Quell’estate lì, l’estate della comparsa dell’uomo dei frati che ci aveva addolcito le vacanze e profumato dunque la vita, era stata l’estate di un’altra rivoluzione a casa nostra e di ulteriore dolcezza: erano comparse le bottigliette tonde e verdi della Roveta.
Il carretto passava e quell’omino tentava “caramelle, sciroppini, stringhe…”. Per capire l’emozione e l’approdo spumeggiante della Roveta a casa mia, bisogna fare un passo indietro, in inverno. A un personaggio mitico della nostra infanzia là dove comincia la Maremma. Anzi dove troneggia la fontana con il monumento alla Maremma assetata. Stava lì tutti i santi pomeriggi con il suo carretto. Una specie di bancarella che mi pareva d’aver scorto tra i disegni del paese di Bengodi sul mio caro Pinocchio. Aveva una tendina a strisce gialle e rosse e dei barattoloni con i tappi in alluminio dorato. Ogni volta che apriva uno di quegli scrigni di dolcezze l’aria si profumava di zucchero. E si sentiva da lontano che era arrivato il Tognotti. Qualche volta aveva anche il croccante, sempre le caramelle mou, gli zuccherotti, le liquirizie, in particolare le “stringhe” che erano nastri lunghi lunghi, aulenti e nero lucenti, e poi quella che era la sua massima attrazione: le boccettine colorate. Trasformavano quest’omino che portava un’elegante bombetta a completare un abbigliamento da Dulcamara, ma di paese, con giacca di velluto, fiocchetto, gilet di bouclé e pantaloni di fustagno sui toni che cambiavano nel corso delle stagioni: dal marrone al verde per l’autunno-inverno, dall’azzurro al giallo per la primavera. D’estate il Tognotti si trasferiva a Marina con una mise molto balneare. Era simpatico, affabile. Credo avesse uno speciale talento nel mettere insieme i desideri – talvolta eccessivamente petulanti – dei bambini e le ritrosie – talvolta anche economiche – delle mamme. Così riusciva sempre a suggerire il giusto mezzo. Io adoravo il Tognotti per le sue boccettine colorate. Ne aveva fatte a fiaschetto, a quartino, a folletto e rilucevano di giallo, di rosso, d’azzurro. Il sapore? Beh, quello era sempre uguale: acqua, zucchero e limone con i coloranti alimentari a compiere la magia. Non saprei dire se il Tognotti preparasse da solo le sue pozioncine magiche o se ne fosse un accorto distributore.
So però che al contrario di quanto scrive Jostein Gaarder ne L’enigma del solitario noi che sicuramente eravamo degli gnometti a sorseggiare quelle esigue «gazzose purpuree» non perdevamo affatto il lume della ragione, ma semmai illuminavamo i nostri sogni fanciulli. La gazzosa purpurea del Tognotti era, infatti, un innocente godimento che aveva però la grazia – attraverso colori sgargianti del liquido – di trasportarci nel regno di Fantasia.
Ebbene in quel tardo inverno comparve nel catalogo di delizie dell’omino con la bombetta una novità assoluta: erano le boccettine di frutta! Per la verità erano solo quattro: una a forma di cocomero che però il Tognotti riempiva con un succo di ciliegia rinforzato nel riflesso rubino, una a forma di limone che conteneva una limonata giallo zafferano, una a forma di banana che non si sa per quale mutazione genetica conteneva un liquido color puffo dalla dolcezza esuberante e la mia preferita: la boccetta a forma di arancia che conteneva l’aroma del “portuallo” ma aveva i colori della polpa della zucca mantovana. A me piaceva tanto. Primo perché era la boccetta più capiente, secondo perché portava addirittura due foglioline di plastica verde, terzo perché al contrario delle aranciate, il liquido era denso, quasi caramelloso. Credo che la collezione “tuttifrutti” sia stata il maggior successo del Tognotti!
Fu con mia intensissima gioia che vidi arrivare il Nano un giorno a Castiglioncello con una cassetta zeppa di bottigliette a forma di arancia. Era la “mitica” Roveta che da quel momento sarebbe stata la bibita ufficiale delle nostre estati riuscendo a soppiantare, anche nei rinfreschi pomeridiani della Linda, l’allora incontestabile sciroppo di Tamarindo che la nonna si faceva comprare in farmacia. Per la verità nonno Luciano continuò a farselo preparare per stemperare la calura. Lo beveva di solito sotto la palma grande, accolto dalla sua grande poltrona di midollino che pareva un trono dell’impero del Pavone. Il nonno – Luciano – era davvero un patriarca ma buono. Portava in quell’estate camicie di lino finissimo a mezze maniche alternando il colore della camicia a quello dei pantaloni: bianca con pantalone blu, blu con pantalone bianco, azzurra con pantalone tortora e abbinando alla camicia i suoi proverbiali Panama – ne aveva una collezione sconfinata – che indossava di tre quarti e calzati con maggior decisione sulla nuca, sì da avere un’aria vagamente sbarazzina. Sorseggiava il Tamarindo alternando boccate voluttuose dalle sue Turmac rosse innestate sul bocchino criselefantino, che rilasciavano spirali azzurrine nell’immota aria estiva. Il nonno sosteneva che per fare un Tamarindo comme il faut non si poteva non avere l’acqua Cinciano, frizzante e alla giusta temperatura.
Non so perché il nonno si fosse lasciato conquistare dalla fonte Cinciano, era un piccolo mistero.
Ogni santa primavera tutta la famiglia, me compreso, si trasferiva – quasi sempre a cavallo della Pasqua e per una decina di giorni – a Montecatini a passare le acque. Si scendeva a “La Pace” – nel frattempo divenuto Grand Hotel – e mentre le signore andavano alle Fonti, il Nonno alternava affari, chiacchiere e partite a carte sostenute da grandi mangiate di frutta che era – diceva lui – il suo modo di disintossicarsi. Così ci si sarebbe aspettato che l’acqua di casa fosse la Fonte Tettuccio delle Terme Leopoldine che allora si vendeva anche in bottiglia. Invece il nonno si era inebriato della Cinciano. Credo che gliela avesse fatta scoprire un suo amico: l’ingegner Frilli che aveva ricostruito una parte dell’apparecchio di distillazione (tutto in rame: un gioiello!) della nostra distilleria. La Cinciano era, infatti, l’acqua di Poggibonsi che sgorga da una fonte in un borgo da cui si domina tutta la Valdelsa. Vuole la leggenda che fosse una fonte benedetta perché lì si dissetavano i pellegrini che camminavano lungo la Francigena. È un’acqua medio-minerale, effervescente naturale che aveva allora un’etichetta bianca e rossa sulla quale mi pare fossero riportate le analisi chimico-fisiche e tutte le proprietà. Ma quello che a me interessava era il tappino a corona. Era anche quello bianco e rosso e portava impresso un mappamondo. Il vantaggio dove stava? Che la Cinciano si vendeva solo in bottiglioni da due litri e dunque il tappino era più grande e più robusto negli altri.
Nelle sfide a biscotto, un gioco infantile che si fa con palline disegnate, avere un tappo più largo e pesante dava un considerevole vantaggio.
Credo che in quella estate il nonno fosse andato in crisi di approvvigionamento di acqua. Fu così che decise, visto che in distilleria aveva dei grandi silos, in parte sotto-utilizzati, di comprarsi cospicue partite di Cinciano. Le cassette con i bottiglioni formavano, negli androni della fabbrica, delle colonne di un idrico gotico vestite dei riflessi verdi del vetro e dei bagliori biancorossi delle etichette! Quel giorno il Nano – si chiamava in realtà Stellante perché il padre contadino anarchico lo iscrisse all’anagrafe con il medesimo nome dell’asino con cui era arrivato al Comune per segnare il neonato – scaricò a Castiglioncello non solo i bottiglioni di Cinciano, ma anche la cassetta di aranciate Roveta. Era arrivato con il Leoncino – in fabbrica lo alternavano al 615 della Fiat che veniva utilizzato per le consegne più svelte; mi stava simpatico con quel muso a papera e il colore blu zaffiro – che avevano ritinto di grigio con dei fregi rossi proprio da quando avevamo iniziato a consegnare anche le bibite nella stagione estiva in attesa che ripigliasse l’attività della distilleria che andava dall’autunno alla primavera inoltrata. Il Leoncino della OM era allora una specie di Rolls Royce degli autocarri di media portata. Era comodo, abbastanza veloce, non eccessivamente ingombrante. Lo guidava Albano che, alle feste comandate, fungeva anche da autista per la famiglia e anche Sergio che era il tuttofare in fabbrica. Ma il “signore” delle cassette era il Nano. Non che fosse particolarmente basso. Oddio nell’NBA di basket avrebbe sfigurato, ma era piuttosto tarchiato, con un collo taurino e una forza davvero ragguardevole. Aveva occhi celesti, quasi liquidi, e gli restava una citazione di biondo tra i capelli, ma a illuminarlo era un sorriso dolcissimo, che non ti saresti aspettato in una sorta di Hulk. Questa sua affabilità lo faceva essere amico con tutti, riusciva a parlare anche ai muri. Poche frasi, ma di solare umanità. E poi aveva – forse perché non aveva mai avuto figli – una speciale attenzione per i bambini. Io adoravo il Nano perché raccontava storielle, faceva scherzetti, minimi giochi di prestigio che sosteneva d’aver imparato “sotto il militare”. In quelle settimane il Nano – sposato con la Nerina: una donna chioccia perfettamente aderente alla mitezza e alla forza del marito, che portava una treccia in cerchio attorno alla testa come ho visto alle donne carniche, sempre vestita di una gabbanella nera con sopra il grembiule a fiori o di pizzo bianco secondo le occasioni – aveva assunto i gradi di caposquadra della divisione gazzose della Distilleria IADA (Industria Alcol Distillato e Affini) con la quale il nonno intendeva impiegare profittevolmente i tempi morti della campagna di distillazione. Nei disegni del nonno c’era appunto di ottimizzare il personale, gli spazi della fabbrica, i mezzi. Ma il nonno aveva concepito questa terza gamba della distilleria (la seconda era la produzione di succhi di frutta, marmellate e di vino) come un’attività stagionale, per sfruttare l’incremento turistico della nascente Costa degli Etruschi. Aveva evidentemente fatto i conti senza gli osti che si fidelizzavano al servizio ma ovviamente lo pretendevano costante. Tuttavia lui riteneva che servire gli stabilimenti balneari, i ristoranti aperti solo l’estate, le discoteche (o forse erano ancora balere?) le pensioni e i chioschi dei parchi poteva essere una buona idea.
E, in effetti, per alcuni anni lo fu.
Ricordo che dopo la Cinciano, che era l’innesco di questo nuovo business di famiglia, ma in realtà – come sempre a casa nostra – era l’ottimizzazione di una comodità familiare, arrivarono alcuni prodotti della Crodo. Me lo ricordo bene perché nonno mi regalò un pallone da spiaggia con la scritta pubblicitaria e questo mi spalancò una certa considerazione nella cerchia dei compagnetti di gioco. La nonna poi fu lieta di avere i bicchieri da bibita anch’essi pubblicitari e serviva i rinfreschi per le signore che ogni santo pomeriggio venivano a far chiacchiere in quegli sgargianti vetri con la disapprovazione della Linda (la bisnonna) che non ammetteva questa contaminazione tra le buone maniere e la persuasione occulta. Potrei dire che a casa mia la contemporaneità arrivò attraverso l’advertising in forma di bicchiere! Ma per noi fanciulli (io, mio zio, mia zia) la Roveta segnò una svolta epocale; si poteva finalmente far merenda come tutti gli altri delle ville vicine: panino e bibita senza subire il rito o del tè con la crostata o del pane imburrato o oliato. La novità non stava solo nel poter avidamente consumare l’aranciata con la michetta e il prosciutto che nonno si faceva spedire da Langhirano e che la Iole affettava con particolare perizia, ma nel fatto che non dovendo sedere al tavolo dei convenevoli, si poteva rimandare la doccia a dopo il tramonto e prolungare a dismisura la sosta in spiaggia. La divisione gazzose della IADA è andata avanti per sette estati. Il nonno si aggravò a luglio, improvvisamente, e se ne andò che non era ancora settembre. Alla riapertura dei bagni l’anno dopo non vendevamo più né acque minerali, né aranciate, neppure la nostra grappa che avevamo cominciato a imbottigliare, né il vino. In casa la Cinciano era stata sostituita dall’acqua di altre sorgenti del pisano che ci portavano direttamente. Credo che la divisione gazzose della IADA fosse stata un’intuizione imprenditoriale felice da parte di nonno: quella era l’Italia del boom che consumava ed era anche una giusta sinergia. Avevamo prodotti nostri, avevamo prodotti in esclusiva, potevamo offrire se non un catalogo completo comunque una buona lista della spesa (oggi si direbbe avevamo un total beverage). Quell’esperienza finì perché non avevamo forze sufficienti per progettare, per vendere, per programmare. Nonno se ne era andato troppo presto, noi eravamo ancora piccoli e i miei dovevano occuparsi della distilleria (che cominciava a zoppicare a causa della crisi energetica) e della campagna che iniziava a dare dei problemi di gestione. Oggi avremmo detto: ci concentrammo sul core business. Avremmo avuto bisogno di affinare la strategia, di modernizzare stoccaggio e consegne, di non limitarci al solo periodo estivo, ma di consolidare il mercato. A molti anni di distanza sono convinto che vendemmo la “divisione gazzose” per fare cassa perché era davvero fonte di liquidità. I nostri contratti e i nostri contatti furono ceduti a un distributore di Livorno di dimensioni più grandi e soprattutto molto radicato nel mercato di tutta la Toscana settentrionale. A noi restarono gli ultimi bottiglioni di Cinciano, i gadget che erano andati via via perfezionandosi – di recente ho trovato un apribottiglie della Roveta nei cassetti di mamma: credo sia un cimelio – e il Leoncino, che nel frattempo si era invecchiato, con le scritte rosse.
Un camioncino sostava e quel ragazzo scaricava birre, acqua minerale, vino, bibite… Me ne sto qui in piazzetta a Castiglioncello. C’è il primissimo sole di un annuncio ancora vago di primavera eppure l’aria è più dolce: il salmastro, quando si passa dall’inverno alla vigilia dei tepori, cambia d’intensità, così anche la resina dei pini. Non c’è quasi nessuno e non mi sono seduto al Centrale come di solito. No, ho voglia dei miei lontanissimi giorni fanciulli. Così sono andato alla bottega e mi sono fatto fare un panino col prosciutto: pane sciapo con la crosta croccante e prosciutto di Casale bello salato e pepato. Mi tiene compagnia una Birra Moretti. Un morso, un sorso… un morso, un sorso, un ricordo… un morso, un sorso, un ricordo e un pensiero e intanto il ragazzo del camioncino se ne va su e giù indaffarato. Ora ha caricato sul carrellino due fusti di Heineken e poi ci ha messo sopra anche una scatola di patatine. Porta una divisa verde. Guardo il camioncino e vedo il telone ordinato, quasi una livrea elegante direi, con la scritta Partesa. Lui scarica, appoggia al bar e fa un nuovo viaggio. Ordine pesante, in tutti i sensi, considero. Poi com’è venuto, mette in moto e se ne va. Lo inseguo. Mi si affollano nella mente il Nano, la Roveta, le cassette di legno della Cinciano. Il panino è finito, la Birra Moretti anche. Avrei voglia di un’altra birra, ma forse ho più voglia di ritrovare una stagione. Avessi potuto fare due chiacchiere con il ragazzo del camioncino avrei saputo come fanno oggi, dove vanno oggi i gazzosai. Quasi quasi lo seguo nel viaggio della bottiglia. La Roveta, mi dicono, non c’è più e del resto anch’io ho sostituito l’aranciata alla birra. Eppure quella Birra Moretti è una madeleine. Mi vien fatto di ripetermi qui con Marcel Proust: «E poco dopo, sentendomi triste per la giornata cupa e la prospettiva di un domani doloroso, portai macchinalmente alle labbra un cucchiaino del tè nel quale avevo lasciato inzuppare un pezzetto della maddalena. Ma appena la sorsata mescolata alle briciole del pasticcino toccò il mio palato, trasalii, attento al fenomeno straordinario che si svolgeva in me. Un delizioso piacere m’aveva invaso, isolato, senza nozione di causa. E subito, m’aveva reso indifferenti le vicissitudini, inoffensivi i rovesci, illusoria la brevità della vita… non mi sentivo più mediocre, contingente, mortale. Da dove m’era potuta venire quella gioia violenta?».
Già anch’io, vedendo quel ragazzo armeggiare con le cassette – oggi sono di plastica e mi sa che siano più leggere – e con un palmare dove spuntava la consegna, mi sono sentito trasportare in una gioia violenta. Mi resta in bocca il sapore del prosciutto, mi vengono incontro i ricordi, mi si para di fronte un pezzo di esistenza che da tempo non resuscitavo. Un morso, un sorso, un ricordo, un pensiero… E quante volte ho compiuto questi gesti, e quante volte ho visto bottiglie andare su e giù, e quante volte in un bar ho chiesto una Heineken, un panino, e quante volte ho odorato il frizzante aroma dell’aranciata. Perché qui e oggi si compie questa mia “ricerca”? Temo sia la concomitanza di più suggestioni: i pini della piazzetta, il ritrovarmi solo in un anticipo di primavera nel luogo dove tutto di me si è determinato, la struggente nostalgia dei miei che non ci sono più, e quel ragazzo che consegna birre e acque, aranciate e vini a determinare una ricordanza quasi leopardiana.
E quella scritta Partesa che definisce un modus operandi e un mondo a declamare un pezzo delle mie origini e pormi l’urgenza di conoscere per ri-conoscermi. Si è deciso: si parte per sapere come fanno e dove vanno oggi i gazzosai. Seguitemi!