Civiltà del vino sul lago di Como. La prefazione di Mario Fregoni 7 Aprile 2017 – Posted in: WINE

In un pomeriggio dei primi anni ‘60, il professor Gianfranco Miglio, Preside della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università Cattolica a Milano, e il professor Giuseppe Piana, Preside della Facoltà di Agraria della stessa Università, con sede a Piacenza, si incontrarono per il consueto Senato Accademico in Piazza Sant’Ambrogio.
Il professor Miglio, allora già un grande luminare scientifico, chiese al Piana chi si occupasse di viticoltura a Piacenza e venne fuori il mio nome, che risultò simpatico al professor Miglio perché abitante a Guardamiglio, milanese di nascita e lombardo di residenza. Al proposito, mi ricordo che non apprezzava il nome di Mezzolombardo, pur essendo terra di vini. Iniziò così un bellissimo rapporto con la famiglia Miglio, dapprima per il frutteto nella casa di Como, ma soprattutto per il vigneto di Domaso, paesino dell’Alto Lago da cui proveniva la sua famiglia, con la frequentazione della casa a lago, dato che l’odierna abitazione nella vigna a mezza costa ancora non esisteva e – conseguentemente – nemmeno la cantina, definita di “micro- vinificazione”, cioè sperimentale.
La passione per la vite e il vino in Gianfranco Miglio proveniva dalla tradizione familiare, trasmessa geneticamente e culturalmente al figlio Leo. In Cattolica, a Milano, il professor Miglio era conosciuto come l’unico docente che in libreria ordinasse libri di “agricoltura”, una disciplina multipla e variegata, ma estranea all’ateneo di Piazza Sant’Ambrogio. Rammento perfettamente che il primo auspicio per Domaso fu quello di salvaguardare le varietà autoctone ed in particolare la Verdese. Il professor Miglio rimase sbalordito quando feci presente che, nonostante secoli di coltivazione nei vigneti del Comasco, la varietà era da considerarsi fuori legge e pertanto non propagabile, perché non iscritta nel Registro Nazionale delle Varietà di Vite idonee alla coltivazione del Ministero dell’Agricoltura e, di conseguenza, neppure negli elenchi dell’allora CEE. Mi chiese di risolvere il problema e gli illustrai la procedura: dapprima dimostrare tramite l’analisi del DNA che la Verdese era un vitigno geneticamente indipendente ed unico e, successivamente, predisporre la “scheda ampelografica” secondo le norme OIV, che già frequentavo. Questo fu un compito che solo alla fine degli anni ‘90 portammo a termine con il figlio Leo.
Il professor Miglio ebbe una seconda delusione quando gli dissi che la varietà doveva essere chiamata Verdese e non Verdesa, come lui l’aveva sempre denominata, assieme ai viticoltori lariani. Accettò a malincuore quando gli sottoposi i documenti storici, fra i quali quello del Molon, grande ampelografo, professore dell’allora Scuola Superiore di Agricoltura di Milano. Poco dopo aver completato il processo di certificazione, la Verdese salì agli onori internazionali quando il caro amico professor Pierre Galet, dell’École di Montpellier, nel 2000, la inserì nel suo fondamentale Dictionnaire encyclopédique des cépages (Hachette-Paris), con il nome ufficiale di “Verdese di Como”, citando anche i sinonimi, tra i quali Verdesa, Verdetto (S. Colombano – MI), Verdona (Abbiate Guazzone – VA), Verdamm (Milanese) e infine Bianca Maggiore (o Bianchera, come viene denominata in alcune zone del Lario, che però dovrebbe essere un altro vitigno). Il Galet descrive brevemente anche i caratteri, corrispondenti a quelli della nostra scheda ampelografica: purtroppo, il professor Gianfranco Miglio era già molto malato e si sarebbe spento pochi mesi dopo, non potendo gustare il sapore di questo successo. Insistiamo sulla Verdese perché è l’unico vitigno autenticamente autoctono e ancora propagato, rappresentante perciò del lago di Como, mentre le altre varietà, citate anche da Leo Miglio in questo libro, ancorché anticamente acclimatate, sono di origine trentina, oltrepadana, o francese.
Va sottolineato che la Verdese ha una buona plasticità enologica, perché può fornire bianchi tranquilli, leggeri e armonici. Insomma vini per consumatori attenti ed acculturati, come afferma Leo Miglio.
Proprio con lui, il lavoro di selezione varietale a Domaso fu esteso mediante l’impianto di una collezione ampelografica che, per ragioni regolamentari, venne posta sotto la tutela scientifica del mio Istituto di Viticoltura di Piacenza. Dalla stessa Leo Miglio estrasse l’attuale piattaforma ampelografica, vale a dire: Verdese e Sauvignon per i vini bianchi; Schiave per i rosati; Marzemino, Merlot e Croatina per i rossi. Fu una semplificazione in vigna ed in cantina, dato che sul Lario la coltivazione e gli uvaggi varietali erano storicamente molto ampi, il che si poteva giustificare solo quando si vinificava tutto assieme per fare il vino di casa. La razionalizzazione della vendemmia ebbe risultati concreti quando la Fondazione Fojanini (di cui fui il primo responsabile scientifico) iniziò a seguire le curve di maturazione delle uve. La meccanizzazione, al contrario, non trovò soluzioni accettabili, mentre attualmente con i droni, sperimentati anche sulle terrazze elvetiche, forse si potrebbero alleggerire i trattamenti antiparassitari, ancora tutti manuali. Solo un intervento regionale potrà affrontare i problemi pesanti di una nano-viticoltura eroica (come battezzata da Leo), verticale, su terrazze inerpicate e in forte pendenza, che si sostiene sulla manodopera della famiglia. Su questa si deve agire, con un progetto serio, che contempli la protezione ambientale. Una cantina unica, che restituisca i vini ai produttori, potrebbe parzialmente togliere il peso ed i costi della vinificazione, ma chi fa il vino in piccole proprietà è molto geloso delle proprie uve.
Anche gli uomini che, come Leo, danno tutto per il territorio, rappresentano il sostegno della viticoltura lariana, l’esperienza dei quali va diffusa con contributi cartacei, o di altro genere più moderno.
Dal suo libro emerge chiaramente che il detto “Talis pater, talis filius” si applica totalmente al binomio dei due “professori”, entrambi venuti dalla storia locale, che hanno cercato di trasfondere tecnica, scienza e cultura attorno a loro. L’uscita del volume deve coincidere con alcuni impegni per il futuro, ad iniziare dalla presentazione della domanda di riconoscimento a DOC della IGT Terre Lariane, dato che l’irrinunciabile prezzo dei vini dipende anche da questo, oltre che dalla qualità e dalla notorietà del genius loci (terroir). Questa potrebbe essere l’occasione per inserire nel disciplinare le menzioni geografiche aggiuntive, ossia la strategia francese degli appellativi di cru, espressione dei toponimi delle vigne, delle aziende, o delle microzone: tutti riferimenti geografici, nati dalla tradizione Bordolese, Borgognona, dello Champagne e di altre regioni francesi. Il Consorzio dovrebbe anche guidare il progresso della viticoltura e interpretare l’enologia lariana sul piano promozionale. Quanto alla tesi contenuta in questo libro, contraria ai “vinoni” – eccessivamente corposi e ricchi di estratto, ma costituzionalmente e gustativamente squilibrati – anch’io la penso allo stesso modo. Sono vini “da masticazione”, mentre i vini eccellenti, sottili di corpo, armonici ed aromatici, si percepiscono sensorialmente, sia al gusto che all’olfatto. Un bicchiere dei primi soddisfa ma stanca, mentre per i secondi il numero di bicchieri godibili a pasto è certamente superiore. Il consumo fuori pasto non fa parte della tradizione latina ed agricola in particolare, mentre quello fuori pasto sostituisce lo whiskey ed è pertanto di origine anglosassone. Non posso, inoltre, dimenticare di rendere omaggio alla signora Myriam Miglio, moglie e madre dei due “professori”, che tante volte mi ha ospitato e deliziato con la sua raffinata cucina, una tradizione che traspare anche dal capitolo “Sulla tavola”: gli abbinamenti piatti- vini in casa Miglio erano sempre e rigorosamente di prodotti locali. Il migliore successo editoriale che si possa augurare a quest’opera, frutto della esperienza “collaterale” di una vita, assai rara in un docente universitario, è la estesa diffusione fra i viticoltori, gli amatori, i ristoratori, ma anche presso i responsabili amministrativi locali, regionali e nazionali. Possa, infine, il libro di Leo Miglio, essere di sprone a considerare la viticoltura lariana come uno degli elementi del patrimonio culturale dell’umanità, degno dell’iscrizione agli elenchi dell’UNESCO.

Mario Fregoni
Presidente onorario dell’OIV – Parigi
Accademico dell’Agricoltura di Francia
Già ordinario di Viticoltura all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano

Prefazione al volume Civiltà del vino sul lago di Como di Leo Miglio

 

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