Bo, Testori e il Bellanasco 16 Marzo 2017 – Posted in: ART

Come nel caso di Ungaretti, il suo volto e la sua voce mi raggiunsero bambino prima della sua poesia, così il modo d’intendere e di conoscere la pittura di Giancarlo Vitali mi ha raggiunto dapprima attraverso gli occhi di Giovanni Testori e la sciarpa sanguinante del gran ritratto eseguito sullo scrittore, nel 1986. Non c’è altro precedente che io debba ricordare come via maestra attraverso cui mi sia venuta incontro la lombardissima ala di una tale pittura che assomma in sé tutto quanto Testori riferisce per risultanza, alla realtà della pittura che in Vitali si presentifica sia per l’antico, sia per il moderno e per il contemporaneo d’importanza (che si presenti rovesciato rispetto ai suoi vertici come già in Arcangeli: Klee, Wols e Morandi al posto di Picasso), cui attingere però sul limitare di una tradizione e di un talento individuale che son lombardi, che più lombardi non ce n’è. Giova ricordare che quest’unico precedente cui abbia potuto far ricorso, mi riporta in seno all’incontro “corporale” con la copertina degli scritti di Carlo Bo raccolti da Santini* che riproduce il grande ritratto sopradetto dove la figura dello scrittore resta in prima persona incorporata. E resta una rivelazione fatta a Testori di se stesso, da vivo, in carne e ossa, «personaggio testoriano», mercé un oculatissimo paragone al naturale, attraverso gli occhi del pittore. Un incontro accidentale e proprio per ciò divenuto segno di omonimia con l’effigie testoriana, come il capretto che sostituisce Isacco resta impigliato per le corna, e l’immagine riprodotta, sistemata nello scaffale si collega all’occhiata cui viene incontro come lontana conoscenza dalle aggrovigliate e rassicuranti cose dell’appartamento. Rapporti di familiarità che è dato cogliere anche là dove Sgarbi dichiara che, «mentre Testori trapassa con gli occhi, Vitali trapassa Testori, infilzandolo al suo amo per coglierne l’umanità profonda, e la dolcezza, e lo spirito. Infine l’anima».
Non senza tralasciare che al mio tirocinio vitaliano o vitalesco (come lo scrittore dice) m’introduceva non solo la sanguinante sciarpa del quadro riprodotto, ma altresì il fluire della pagina di Bo sul registro di Testori, toccata dal suo fuoco stesso, dalle sue questioni, dal territorio d’eccessi di Testori, insomma.
Sì da legare insieme al cenacolo degli occhi che si trafiggono l’un l’altro, la parola trafiggente, diversiva in modo unico dall’abito più istituzionale di Carlo Bo lettore e letterato.
In effetti, se Testori resta lì afferrato all’amo, dall’occhio di Vitali, non di meno, resta inchiodato al suo depauperato «cuore sanguinante», sino all’indigenza, attraverso le parole di Bo, da cui suole risultare una «vitalità ematica» come non prima.
Bo stesso, fatalmente, resta afferrato nelle maglie di quella «carne sanguinante» che pompa il cuore dello scrittore, a tal punto che l’espressione degli scritti allo stesso dedicati, sarebbe un caso inseparabile dai termini; l’unico caso in cui il dosaggio celebre e imperituro del critico-lettore sia andato in pezzi, o sia stato esautorato: «Testori ormai non fa più della letteratura e la scrittura gli viene imposta fra turbamenti, rossori, pene, violenze. Per un certo tempo regge il silenzio, poi viene sempre il momento dello scoppio e proprio di questa immane deflagrazione è fatta ormai la memoria della sua scrittura superba e impacciata, straziante e gridata». Sicché è tutto un vincolo di testimoni che io chiamo in presenza, dopo tanti anni, all’atto iniziatorio con la pittura del maestro. Si può parlare per Vitali, cioè per i visceri che offre la sua figurazione, di un ponderoso gioco di partecipazione all’«oltranza» stessa testoriana che diventa «dietranza» blasfematoria del poeta il quale, inattualmente, vuole camminare oltre? Perché chiunque cammini davvero avanti viene a trovarsi sempre dietro. In tal senso si rincorre ancora qualcosa di simpatetico che va esplorato in questo convegno di arti figurative e arti letterarie (tra poesia «in parola» e poesia «in figura») cui sono aperti sempre i battenti dell’urbinate Casa della Poesia. Altri pittori hanno dipinto quello che dipinge Vitali. Altri scrittori trascinano nella stessa vertigine della crocifissione e del sacrificio: per esempio, Sebald, nel suo straordinario «poema secondo gli elementi», Secon­do natura. Eppure mai la vita umana è stata guardata come ha fatto Testori, mai il denudamento degli occhi è arrivato a mescolarsi con un’evidenza così incombente, rendendo lo strazio tanto circonvicino.
Lo stesso vale per l’argomento profondo, oscuro, totale, del sacrificio che concresce nelle ‘carni’ di Vitali, avvicinate nei rapporti con la pittura antica lombarda (oltre che nello scambio con i grandi materici «di casa nostra, e d’Europa») immancabili nello stesso spettro di pittura che egli esaurisce; giacché come diceva Benn, se – «quadri, statue, sinfonie» son sempre «internazionali», essi lo sono solo se, radicati «in modo nazionale». Ciò è tanto vero per il pittore testoriano, ex lege di dietranza, ultimo pittore della realtà in Lombardia, che, in limine ai propri giudizi sull’artista, Vittorio Sgarbi può parafrasare ciò che Longhi ha dichiarato su Morandi, oltre mezzo secolo passato: «Ho la sensazione che, benché lontano dagli occhi di tutti, Giancarlo Vitali sia l’ultimo pittore».
La questione non cambia pensando alla ritrattistica del maestro o all’ossuario, al martorio zoologico, se si pensa all’inimmaginabile scudo di maschera micenea insanguinata che è il toro squartato come il ritratto di Testori: offertorio sacrificale, essudato e solidificato senza omissione di realtà, cranio del coniglio scuoiato che si affianca alla disperta… violenza e umana agonia «dirimpettaia» del belato, delle drammatiche ambasce o afonie della vittima.
Nell’uno e nell’altro vige sempre come liturgico coagulo della sofferenza il patetico e disagevole orrore. Ed è questo lo scomodo dramma che si materializza in Vitali come panorama umano, reclamato drammaticamente attraverso l’umiliatissima «cristicità» degli emorragici olocausti, da cui riprende direttamente il discorso che procede da Testori nel rapporto che sposa la sua «anima incendiata» Bo con un’interpretazione di passione del martirologio espressivo. Tutto ciò corrisponde allora – un siffatto teatro d’incondita vittimicità e «onnipresente cristicità» (per Testori) – alla «monumentazione materica e cromatica» del Bellanasco che assomma nei ritratti di Testori tutti i teschi ancora carnei di coniglio, tutti i bucrani ancora incarniti, tutti gli atti significanti di un dato eterno, sanguinante, dentro il nostro destino.
Fa però da contrappeso a un tal specchio non alleggerito della nostra cruda colpa, l’occhio di Testori recante quella luce di frontiera che sarà pur quella dei cieli di Lombardia cantati da un giovane Sereni, però mescidata con la gelatina vitrea dell’occhio della vittima, con l’oculare bulbo azzurrastro del coniglio esposto nella mortuaria teca del negozio. Vitali preme su questo pedale come Testori sopra il grido. È un grido di verità, il grido testoriano che si scarnifica per diventare nostro cibo. È il grido «di tutti gli assassinati della terra», dell’aragosta che muore nel bollore della pentola, del bue che a muso all’insù invoca quella pietà che il vittimario non può udire. È un grido forte, levato in alto come quello delle Supplici eschilee. Ecco allora riesplodere il formicolio degli occhi di Testori con la loro spada di luce, la loro fiamma cerula venuta a incendiare tutta questa materialità orribile, miseranda, a gridare fuori dall’«ematico pantano», dalla flagellazione ininterrotta che cola sangue dalla testa dei ritratti di Vitali «per questa impossibilità di spegnere ogni sua forza nell’immagine invocata» di cui parla Bo, ma anche perché «il suo buttarsi nel precipizio [abbia] un valore di salvezza». Vi è dunque un senso nell’aver realizzato una tal mostra “monotematica”, non tanto sulla carne dell’offerta ma su quella di Testori che offerta diversa non è: colto nel torcersi irredento della propria fiamma, da essa bruciacchiato, quasi a ricordare nell’aggrovigliato spasimo, l’espressione antica dell’abbraccio sanguinante tra Dante e Ser Brunetto sul settimo burrone. I gemiti della carne e delle viscere di quello spirito che un poco col vecchio amico vuol ritornare ’ndietro.

Luca Cesari
Occhi di Testori. Giancarlo Vitali e la poesia

* Carlo Bo, Testori – L’urlo, la bestemmia, il canto dell’amore umile, a cura di Gilberto Santini,
Milano, Longanesi, 1995.