Vegetit. Invito alla lettura di Alberto Capatti 2 Novembre 2016 – Posted in: BOOKS, FOOD

L’introduzione dell’autore Alberto Capatti a Vegetit. Le avanguardie vegetariane in Italia

I vegetariani (e i carnivori) dovrebbero esser curiosi delle loro origini e della loro storia italiana. In essa sono assenti alcuni protagonisti d’oggi, radicali, i vegani, ed è forse debole, ma tutt’altro che marginale, lo scandalo denunciato dagli animalisti, la macellazione. È parimenti difficile comparare i consumi non solo di una civiltà contadina, vegetariana coatta, ma di una borghesia che alla verdura conferiva un ruolo nutrizionale subalterno alla carne, essendo questa se non un attributo di classe, un godimento privilegiato, appena esteso, con frattaglie, cotiche e cascami, al focolare di operai e artigiani. Eppure la nascita di associazioni, di comunità vegetariane, è, in Europa, un indicatore culturale di primaria importanza che qualifica il progresso civile e lo spirito critico dei consumatori che procedono ad un riesame degli alimenti assegnando loro un valore nutrizionale proprio, sociale, spirituale. L’Inghilterra, la Germania hanno aperto la strada, contribuendo alla sensibilizzazione di molti paesi europei. L’Italia, fra le ultime nazioni ad associare i vegetariani, grazie ad essi opera una disanima del proprio cibo e conferisce a questa un significato che va ben al di là delle calorie e delle vitamine.
La città industriale è, agli inizi del XX secolo, l’epicentro dell’inquinamento, delle malattie degenerative, tisi e sifilide, e di tutti i tossici, fumi di ciminiere, sigari e assenzio: sono sempre i vegetariani a rivelarlo ad una popolazione frastornata da una alternanza di crescita economica e di guerre, lacerata fra la tubercolosi e lo sport, e ad una élite distratta dal proprio effimero benessere, paga di un piatto cucinato bene. Il vegetale, la natura, la salute ne sono l’antitesi. È una anticipazione, di un secolo, nella quale dobbiamo vedere i prodromi di una cultura diventata oggi se non egemone autorevole, rafforzata da analisi scientifiche e da leggi a difesa dell’ambiente, una cultura che ha in queste pagine, i padri fondatori e il loro profilo dietetico. Niente spirito pitagorico, niente massime pizzicate nei classici greci o latini, ma una consapevolezza che nasce, con l’industrializzazione, dalla vita di tutti i giorni, a tavola, e si sviluppa, nel corpo sociale, osservando il proprio corpo, facendone il principio, vestito e ancor meglio seminudo, di una civiltà nuova, voluta respirando, masticando, camminando. Una civiltà fondata sulla rinuncia della carne per la propria carne, e declinata in tutte le scelte, dal cotto al crudo, al crudo esclusivo rifiutando caffè, alcool, tabacco, zucchero se non di canna e i fumi delle fabbriche.
I vegetariani hanno usato il cervello, senza affidarsi ad etichette facili, spendibili in una società italiana che faceva del cibo un costume. Nulla di commerciale nelle loro azioni, ma veri intellettuali che a fianco degli igienisti e molto spesso bisticciando con essi, operano con il cervello e solo in seguito, all’ora del pasto, mordono la carota cruda. La storia alimentare, narrata con i soli banchetti, piccoli o lunghi, familiari e sociali, nel ‘900 appare vieppiù datata, anzi risibile, perché chi vi cerca i germi del nostro presente, vi trova una parodia, anzi nulla. Per scriverla, occorre ricercare le teste lungimiranti d’ogni dove, Pellegrino Artusi e Francesco Cirio, approfondendola con l’aiuto di quanti hanno rotto con il proprio passato, con lo spirito di casta, percorrendo sentieri erbosi. Il vecchio Tolstoj era fra questi, con la sua ampia barba e con il suo invito a fare il “primo passo”, la visita ad un macello, ma i crudisti che rompono con la carne, con la cucina e con una visione serafica del benessere vanno molto oltre, ed i loro morsi sulla gamba di sedano, sulla fettina di patata cruda giungono fino a noi, come le crepe nel muro di una civiltà. Eroi solitari e sconosciuti, sono i forti e i deboli. Le guerre li vedono vittime imbelli o complici coatti: pacifisti non combattono ad armi pari con chi si arruola volontario, e, fra leva e prigione, tacciono umiliati. Nei periodi di pace vivono la separazione dall’enorme folla carnivora, come un distacco che si legittima in sé e per sé, senza apparenti conflitti. Solo lo spirito delle religioni orientali, ed un gandhismo intuito più che vissuto, ed una medicina rivolta alla salute e al benessere sociale, sembrano tutelarli.
E nemmeno tutto questo è veramente necessario perché è il rapporto con il mondo vegetale che rappresenta la loro vera tutela. Non si tratta di una dieta ma di un vissuto profondo, aperto al proselitismo, quindi alla diversità, centrato sull’io e sulle discipline per salvaguardarlo.
Ma sarebbe errato vedere nel vegetariano un essere astratto, solipsista, perché nella sua scelta c’è l’avvenire della terra e dell’umanità. Per questa ragione abbiamo rivolto la nostra ricerca ad una pagina poco nota della loro storia in cui implicati con regimi dittatoriali, ne erano ad un tempo i complici e l’elemento avulso, incongruo. Come si leggerà nelle pagine seguenti, da igienista una parte del movimento vegetariano diventa, in Italia, naturista ed opera nell’ambito della cultura fascista, creando un modello di vita centrato non solo su frutta e verdura ma sulla vita all’aria aperta e sull’esercizio fisico e sul corpo, quest’ultimo, nelle sue espressioni ginniche, ammirato ed esaltato. Che la cultura senza carne sia una politica alimentare lo si intuisce oggi non solo dai consumi che sono i voti edibili di una società democratica, ma da un associazionismo diversificato, vegetariano o vegano, con statuti e regole diversi che intendono influire ed espandersi, con divieti e concessioni, variabili o intransigenti. Ieri è nata questa politica, con modalità che questo libro chiarisce non per creare una continuità nella storia italiana ma per restituire alle scelte nutritive e civili, un loro valore antitetico, morale. Dai primi vegetariani, dai primi naturisti abbiamo da imparare l’individualismo alimentare e uno spirito di gruppo di forte impatto. Erano pochi, pochissimi, è vero, e forse singolari, ma agivano controcorrente, in ogni senso, anche quando tendevano ed alzavano il braccio e la mano, per il saluto romano. La loro fine, silenziosa, nel gorgo della seconda guerra mondiale, livellatrice di tutti i consumi, sarà il preludio di una rinascita, la nuova “associazione vegetariana italiana” del 1952, rifondata da una vittima del regime, il credente e pacifista, Aldo Capitini.
Ieri e oggi, i vegetariani sono coloro che, indifferenti all’opinione, hanno scelto. Il gastronomo esita e si interroga continuamente, e il mito dell’onnivoro guadagna proseliti, mentre attratti da prodotti tipici tradizionali, da astrattismi d’alta cucina andiamo alla ricerca di nuovi valori, alla ricerca di un equilibrio che la globalizzazione compromette. Il cibo è individualismo e società, saper scegliere e non dover scegliere. Chi, invece, ha fatto una scelta esclusiva e totale – totale come l’orto e il frutteto, principali o uniche fonti di sostentamento – non rimette in discussione ragioni e contro-ragioni. Era così, negli anni 1905-1945 da noi presi in esame? Vedrete ogni sorta di gioco, ogni sorta di compromesso, dalla frutta alle uova e al pesce per ritornare ad una dieta di soli frutti, cibandosi del crudo più verde, ma nulla inficia la ragion prima di ogni scelta che è a monte, anzi in una concezione della vita. Su di essa riposa questa ricerca, fatta in una biblioteca milanese e non sul banco di un verduriere, da uno studioso che non ha mai militato, preferendo i libri ed ascoltare gli altri, leggiucchiando, sgranocchiando. E, a questo punto, leggendo a vostra volta, a crudo, mordete, scegliete…

Alberto Capatti