L’Enigma di Savonara Attilio 23 Aprile 2013 – Posted in: ART, BOOKS

Il contributo di Leonardo Castellucci all’ultimo titolo della collana iVitali, Enigma di Ferragosto.

13x12.2Di nuovo un Andrea Vitali inconsueto quello che leggiamo in Enigma di Ferragosto, racconto nei canoni della narrativa che attiene al misterioso. Non un giallo psicologico in senso stretto, non un noir, né un thriller, piuttosto un‘abile contaminazione di questi generi sostenuta da una sottesa chiave surreale. Una storia ammantata di una latente meta-realtà, che attraverso abili espedienti letterari, riesce a mettere in allerta la mente del lettore, facendo montare un’attesa, che non è quella della tradizionale suspense, regalandogli una riflessione sulla condizione umana, obbligata a convivere con un senso di premorienza consapevole e con quell’individuale ‘piccola morte’ che, almeno nel pensiero inconscio, quotidianamente ci accompagna. In questa imprevedibile storia, scritta in prima persona, nella forma di una confessione al crepuscolo della vita, l’elemento chiave attorno a cui gioca il narrato è un orologio, che quando viene citato per la prima volta non è che un semplice ricordo del protagonista ma poi, improvvisamente, diventa per lui il simbolico enigma da risolvere.
Andrea Vitali costruisce con sapienza lo svolgersi della storia dividendola in tre brevi capitoli: il primo realistico biografico, che getta le premesse per il secondo, in cui la dimensione si fa pian piano più interiore e introspettiva per permetterci di entrare nel terzo e conclusivo, dove ‘compare’ l’enigma, ch’è il tema attorno al quale si snoda il racconto. E in questo ‘gioco di specchi’ e di rimandi, lo scrittore dipana la sua storia ricreando ad arte momenti che incitano immagini o atmosfere conosciute. Come nel caso del breve viaggio in auto di Attilio e Ippolito, risolto con un fitto dialogo, in cui la realtà tangibile sembra scomparire e il ‘clima’ rievocare il bergmaniano Settimo Sigillo, quando il cavaliere gioca a dadi con la morte sapendo già di avere la partita persa. O quando Ippolito esita a entrare in casa di Attilio per aiutarlo a svelare il mistero dell’orologio, in un’atmosfera da romanzo gotico, che richiama l’ombra sinistra e indeterminata di un ignoto sempre pronto a colpirti alle spalle. E il protagonista e la storia diventano allora solo un mezzo, visto che il fine è di formulare quell’enigma al lettore, lasciando a lui l’impossibile soluzione e lo strumento cui ricorrere è proprio quel simbolico orologio che ci interroga sul significato del tempo. Secondaria dunque la vicenda umana di Attilio, che diventa una fra le tante possibili da raccontare per arrivare 3cal filosofico interrogativo della conclusione. Attilio, uno che non si è mai messo in gioco, che ha rifiutato il rischio di una scelta vera e che ha preferito un’esistenza spesa fra testa e viscere, rinunciando al piano affettivo e a una vera relazione e intimità con gli altri: con il padre, che lo ha voluto medico a costo di sacrifici, con la madre, che lo ha coccolato e poi ha atteso, da lui, un ‘sano’ matrimonio con prole, con la sorella minore, che ha sempre sentito come una comparsa nella sua vita. Un disilluso prima di diventarlo per ‘vita vissuta’, rinunciatario in partenza, troppo in fuga dalle responsabilità che i veri sentimenti e le implicazioni con gli altri esigono. Adesso Attilio racconta questa sua esistenza un po’ dimentica, consumata, diremmo, in una sorta di sotteso risentimento o di mancanza di aderenza alla stessa. La vita di un pavido, che si consuma nell’attesa che il tempo passi sempre uguale, sempre con tante donne con cui mescolarsi alla ricerca dello stesso piacere illusorio che gli permetta di scansare le responsabilità di una scelta di amore consapevole. Poi, una volta persi i genitori, con la sorella che si fa suora e l’età che avanza, il protagonista si scopre solo, proprio senza nessuno, senza neppure un amico con cui condividere qualcosa di autentico. “Solo nella casa dei suoi vecchi, un orologio fermo sulle quattro gli accende un dubbio sul significato dell’esistenza. È in quel momento che sembra svegliarsi dalla sua apatia. E l’inquietudine lo prende. Il bisogno di sapere il motivo della propria rinuncia, di quella sua vita mai veramente sbocciata, lo mette nella necessità di cercare una risposta”.

… nella Vetrina del Tempo

E in questa clima da ‘mondo di mezzo’, dove brancoliamo fra buio e luce senza alcuna certezza, il maestro Giancarlo Vitali gioca col senso del tempo e del suo opposto proponendoci uno dei suoi storici lavori, l’archetipica Vetrina del Tempo, un’opera degli anni ’70, dove l’inesorabile ‘Signora’ attende, come un tormentoso monito, ogni vivente sulla porta di un negozio di orologi, e in quel suo scheletrico apparire, rafforzato da uno stridente abitino in tulle, con tanto di civettuolo cappellino, agghindato da fiorellini, naturalmente secchi, si erge all’ingresso della bottega, ponendosi come limite fra l’unica vita di cui siamo certi e l’altra, quella del dopo, di cui sappiamo solo per sentito dire, rappresentata dall’ignoto, illeggibile buio che si nota alle sue spalle. In linea con lei, con la morte, si profila la vetrina, con quegli orologi, tutti lì, tutti insieme, come una polifonia di tanti piccoli tempi che battono lo stesso tempo, quello che noi ci siamo imposti per darci un ordine, un’organizzazione, un limite. Ma, sembra chiedersi il maestro, una volta concluso il nostro segmento temporale, gli orologi certo non serviranno più e, una volta persa la loro utilità e la loro identità, poi che succederà? L’Enigma, agnosticamente risolto, si propone (non si risolve) in un’ascensione di numeri e lancette che, quasi anime disincarnate escono dalla bottega e salgono verso l’Infinito spirituale oppure si avviano verso la loro definitiva dispersione, in un oblio senza memoria che chiude lì, con la morte fisica, la questione della vita.