Ma nella pratica a cosa serve una dop o un igp? 22 Luglio 2010 – Posted in: Archivio

mozzarelleHa un senso, per il consumatore abituale, che un prodotto ostenti o meno un marchio di qualità?

Me lo chiedevo stamani al banco latteria di un noto supermercato di Napoli, mentre assistevo al solito siparietto tra il cliente ed il tipo al banco che lo serviva: “Altro che dop, signò, questa è roba fine, di altissima specializzazione”. Non credo che altrove, a parte l’inflessione dialettale, sia diverso. Si cerca la specialità, il gusto, al massimo il banconista tenta di ammaliare con un’offerta d’assaggio. Ma nessuno, e sono certo di non essere smentito, si è mai sognato di dare un’occhiata, oltre quel banco, all’etichetta anche solo per valutare la tracciabilità del prodotto. Si, l’alternativa è “pescare” negli scaffali del prodotto confezionato all’origine, ma se è già porzionato diventa difficile. Chiedo scusa al lettore per il piccolo sfogo, il fatto è che mi appare inconcepibile, specie per i formaggi freschi, sentirsi attratti da mozzarelle e ricotte che di fascino non hanno nulla se non, talvolta, nel prezzo o nella bella tonalità di azzurro intenso offerta come gadget. E mi sta bene (ma proprio per non fare ulteriori polemiche) che la massaia di Rovigo acquisti una mozzarella di bufala tedesca (dal nome italiano), ma che lo faccia donna Assunta del quartiere Barra di Napoli mi lascia basito. Dove vuole andare a parare questa filippica? In fondo da nessuna parte, ma mi serve per introdurre un semplice ragionamento. Un marchio di tutela (dop, igp e tutti gli altri) è una garanzia di qualità, per ottenerlo non è facile. Bisogna, durante una lunga e difficile trafila, presentare evidenze scientifiche, garantire un disciplinare e dimostrare di attuarlo, oltre a dover fornire tutta un’altra marea di carte, analisi, ecc. ecc. che qui, pietosamente, risparmio di elencarvi. Una volta ottenuto nasce la necessità di sostenere il prodotto sul mercato. E qui le dolenti note: manca la comunicazione. Un prodotto, per ritagliarsi un pezzetto di mercato, deve comunicarsi , a parte il logo più o meno carino del consorzio di appartenenza, spiegando perché esiste, cosa offre in termini di gusto e, magari, sostenere le qualità salutistiche che lo caratterizzano.

Attualmente i consorzi di tutela in Italia ammontano a diverse centinaia, i più noti li vediamo costantemente in tv o sui quotidiani e periodici. Diciamo siano circa una ventina (volendo proprio abbondare) quelli che, avendo tanti soci produttori, hanno capacità di spesa e molti soldi da spendere in pubblicità. E gli altri? Dove sono? Cosa fanno?

Gli altri aspettano. Aspettano un contributo regionale, una rete commerciale a basso costo e ad alta redditività, la roulette della grande distribuzione o forse una mano dal cielo.

Bene questa “santa mano” c’è, benedice il nostro futuro attraverso lo strumento dell’educazione alimentare, quella che spiega, ai bambini delle elementari, come e con che cosa ci si può alimentare. Quella che tiene aggiornate le famiglie attraverso le reti del pubblico servizio. Quella che spiega cosa sono e perché è meglio scegliere prodotti a kilometro zero. A beneficio di chi non lo sapesse (e sono ancora in milioni) andrà spiegato che tutto ciò aiuta la nostra salute, migliora il benessere e riattiva l’economia locale.

E al diavolo i sogni di export impossibile. Vendiamo ai prezzi giusti, ora, qui, in Italia.

Francesco Paciello